Cinquantatré anni fa la Stasi entrava nel mondo del calcio

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Nel 1931 non esisteva nell’intera Germania un solo quartiere con una maggior concentrazione di anarchici, socialisti e criminali politici rispetto alla selvaggia Wedding. In particolar modo, vi era un ragazzo di appena ventisei anni che, malgrado la giovane età, aveva già avuto modo di rendersi più volte protagonista di azioni sovversive e di violente proteste contro l’esecutivo: il suo nome era Erich Mielke. Un giorno, egli decise di spingersi oltre i propri limiti e con la complicità di alcuni dei suoi “compagni” di partito organizzò un’imboscata con il preciso intento di assassinare due poliziotti ritenuti politicamente ostili: il capitano Anlauf e il sergente Willig. Quest’ultimo, però, nonostante le gravi ferite riuscì miracolosamente a sopravvivere all’agguato; fornì tutte le indicazioni utili per arrestare il suo attentatore ma prima che ciò fosse possibile, Mielke riuscì scaltramente ad acquisire un passaporto falso e a rimediare un passaggio su una nave mercantile per Leningrado, dove fuggì.

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Mentre era all’estero, tuttavia, accadde in patria qualcosa che non avrebbe mai potuto prevedere: nel 1933 Adolf Hitler prese il potere iniziando a braccare tutti i simpatizzanti comunisti del Paese e perseguitando ognuno dei suoi avversari politici. In quel momento, Mielke deve aver pensato che forse non sarebbe mai più tornato nella sua amata nazione, ma che non per questo si sarebbe dovuto esimere dal combattere chi la governava. Partecipò come volontario alla guerra civile in Spagna nel tentativo di sconfiggere la legione franchista (supportata cospicuamente dai tedeschi), ma, soprattutto, allo scoppio della seconda guerra mondiale combatté in Belgio e in Francia contro i nazisti. In altre parole, egli trascorse gran parte della sua vita tentando di uccidere il maggior numero possibile dei suoi connazionali.

Quando tutto ciò fu finito, contrariamente alle sue aspettative, a Erich Mielke venne concesso di tornare in quella Berlino che ormai trentotto anni prima gli aveva dato i natali e che adesso iniziava a dividersi in due: da una parte vi era la società capitalista e filoamericana; dall’altra, sul lato orientale del muro, quella comunista fedele a Stalin. Inutile dire che il nostro protagonista scelse quest’ultima.

Come in ogni Paese governato da un regime, anche nella neonata Germania dell’Est v’era un profondo bisogno di controllare i propri cittadini e di assicurarsi che non potessero esercitare alcuna forma di libertà d’opinione. L’allora Presidente del KGB Ivan Serov si rese conto che l’unica soluzione per risolvere il problema era quella d’istituire un gruppo di polizia guidato da un uomo in grado di alternare una profonda fedeltà al partito con un altrettanto profonda esperienza militare: la scelta ricadde su Mielke. Insieme i due fondarono il “Kommisariat 5”, l’organizzazione che pochi mesi dopo sarebbe stata ribattezzata Stasi e che avrebbe per sempre cambiato il destino del Paese.

Si calcola che negli anni successivi l’istituzione avrebbe radunato al proprio interno ben 85.000 spie a tempo pieno e quasi 170.000 informatori volontari. Secondo gli archivi ufficiali, prima della caduta del regime non v’era in tutta la Germania orientale un solo edificio pubblico in cui non lavorasse in incognito almeno un uomo fedele all’organizzazione.

Nel dicembre del ‘57 Mielke venne nominato dal Presidente della Repubblica e Wilhelm Pieck Ministro della sicurezza, un incarico che avrebbe mantenuto ininterrottamente per trentadue anni e che, cosa forse più importante, gli avrebbe garantito il controllo esclusivo della temuta istituzione di polizia. Malgrado fosse all’apice del suo potere, v’era tuttavia qualcosa che continuava a tormentare il generale, qualcosa che nonostante tutta la propria influenza non riusciva a controllare pienamente: il calcio. Potrà sembrare assurdo, ma per il capo della Stasi gli sport di squadra non rappresentavano solamente un’occasione di svago, bensì un’opportunità per dimostrare al mondo e ai propri concittadini la propria efficienza.

cms_11484/3v.jpgLa squadra preferita di Mielke, la Dinamo Berlino, dopo una lunga serie di discrete stagioni aveva iniziato il proprio (apparentemente) irreversibile declino, arrivando ad alternare prestazione mediocri sul campo con ancor più cocenti delusioni extra calcistiche, tra cui il fallimento della società. In molti si aspettavano che la squadra sparisse dai radar del calcio tedesco, ma c’era qualcuno per cui quella crisi rappresentava un’occasione. Il ministro della sicurezza creò le condizioni per arrivare a rifondare la Dinamo Berlino e per rilevarne la proprietà, era il 15 gennaio 1966.

Nonostante gli sforzi personali di Mielke, gli anni successivi si rivelarono particolarmente deludenti per i tifosi: la squadra subì un’umiliante retrocessione nella DDR-Liga (la serie b tedesco-orientale) e, salvo una finale di coppa, non ottenne alcun risultato degno di nota.

Quando però nel 1978, dopo l’ennesima annata senza titoli, il generale perse la pazienza, accadde uno degli eventi più emblematici della storia dello sport mondiale: Mielke alzò la cornetta del telefono e comunicò agli altri proprietari delle squadre tedesche che da allora in poi non avrebbero mai più vinto nulla. Di solito, quando all’epoca un uomo del genere faceva una promessa trovava il modo per mantenerla … anche quando quel modo era illegale.

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Da quel momento in poi la Dinamo Berlino avrebbe vinto dieci campionati consecutivi. Al timone del club venne chiamato un allenatore giovane e ambizioso, Jurgen Bogs; per puntellare la rosa vennero aggiunti gli innesti del gigantesco portiere Bodo Rudwaleit, del poderoso difensore Frank Rode e della talentuosa punta Rainer Ernst; soltanto in seguito si aggiunsero alla squadra anche il prolifico centravanti Frank Pastor e l’imprevedibile centrocampista Thomas Doll (che in futuro avrebbe anche vestito le maglie di Lazio e Bari). Fin qui nulla di strano, se non fosse per il fatto che la maggior parte di questi giocatori vennero acquistati soltanto dopo aver subito una serie di ricatti e intimidazioni da parte della Stasi. Alla fine degli anni ‘70 rifiutarsi di giocare per la Dinamo Berlino equivaleva quasi sempre ad essere sbattuti in carcere o perfino ai lavori forzati.

Ad ogni modo, malgrado i prestigiosi acquisti il leader tecnico della squadra continuò ad essere un ragazzino proveniente dalle giovanili: il regista Lutz Eigendorf, “il Beckenbauer dell’est”. Stanco di rappresentare una squadra moralmente corrotta, durante un’amichevole all’estero Eigendorf fuggì a occidente lasciando la propria famiglia. Firmò un contratto con il Kaiserslautern e iniziò a farsi portavoce di tutti i misfatti perpetuati dalla Stasi al di là del muro. Proprio il suo impegno avrebbe probabilmente determinato la sua condanna a morte: il 5 marzo 1983, mentre era alla guida della sua Alfetta GTV sulla Braunschweig-Querum, il campione finì fuori strada andando a schiantarsi mortalmente contro un albero. Inizialmente si pensò che l’incidente fosse derivato dalla sua ubriachezza, ma una successiva indagine del giornalista Heribert Schwan rivelò che, al contrario, Mielke aveva inviato due agenti della Stasi per assassinarlo.

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Malgrado l’arroganza del regime, negli anni non mancarono le squadre che tentarono coraggiosamente di interrompere l’egemonia della Dinamo; in particolar modo, nella stagione 1985-86 la Lokomotiv Lipsia riuscì a disputare un campionato pressoché alla pari con i berlinesi, trasformando lo scontro diretto del 22 marzo in una gara decisiva. Supportata dagli oltre 15.000 del Bruno-Planche-Stadion, la squadra sassone dominò gran parte dell’incontro portandosi in vantaggio con un gol dell’ariete Olaf Marschall; incredibilmente, però, l’arbitro si rifiutò di fischiare la fine della gara e concesse anzi un dubbio rigore agli ospiti, i quali pareggiarono l’incontro e (conseguenza quasi inevitabile) vinsero il campionato. L’episodio venne ribattezzato dalla stampa occidentale “la vergogna di Lipsia”, un soprannome almeno in parte giustificato dal fatto che, curiosamente, l’arbitro in questione era un agente della Stasi, Bernd Stumpf.

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Fu solamente il corso naturale della storia Europea a mettere fine al dominio di Erich Mielke e con esso all’egemonia calcistica della Dinamo Berlino. Il generale, per una bislacca serie di coincidenze poté essere processato solo per le azioni sovversive compiute durante la sua giovinezza e non per i crimini compiuti quand’era a capo della Stasi; prima che ciò accadesse, infatti, i suoi problemi di salute persuasero la magistratura tedesca a disporre la chiusura di qualunque indagine a suo carico. Morì in libertà il 21 maggio del 2000 a Berlino, pochi giorni dopo venne sepolto nel cimitero d’onore dei funzionari della DDR. Indubbiamente per tutta la vita mostrò una notevole abilità tanto nel perpetuare la sua (personalissima) giustizia quanto nel sottrarsi a quella degli altri. Prima di andarsene, tuttavia, dovette sopportare almeno un’ultima umiliazione in grado, forse, di castigarlo almeno in parte per i suoi crimini. Subito dopo la caduta del muro i suoi uffici vennero infatti invasi e vandalizzati da una folla inferocita: era il 15 gennaio 1990… lo stesso giorno in cui la Dinamo Berlino era stata rifondata.

Gianmatteo Ercolino

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