DA MARE A MARE: DALL’ADRIATICO ALL’OCEANO ATLANTICO

Carlo Michelstaedter e Rico Mreule, un’amicizia filosofica

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"Una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta dall’uomo" (Platone, Apologia di Socrate)

"Il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando libera ride la morte a chi libero la sfidò" (C. Michelstaedter, "I bambini del mare", in, Poesie)

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Carlo Michelstaedter, giovane forte, intelligente, generoso, visse la sua vita con una altissima tensione problematica e costruì la sua intensa e breve esperienza esistenziale e filosofica trovando nei tragici, nei grandi testi presocratici, nella letteratura di Ibsen e nella musica vigorosa ed eroica di Beethoven, la propria ‘Heimat’, non priva di illuminazioni buddiste cui fu introdotto dal compagno di scuola e amico dell’anima Enrico Mreule, che fra gli altri, incarnerà, al suicidio di Carlo nel 1910 a 23 anni, l’esempio di una ossessiva e struggente fedeltà.

Cerca ognuno la mano del compagno e dice: ‘io sono, tu sei, noi siamo’, perché l’altro gli faccia da specchio e gli dica: ‘tu sei, io sono, noi siamo’” (C.Michelstaedter, PR-99) – aveva affermato Michelstaedter in relazione alla vita dominata dalla RETORICA, che dovrebbe legittimarci attraverso il linguaggio, mentre propone una VIA DELLA PERSUASIONE, che si chiarisce e si giustifica alla luce di due concetti fondamentali: ‘ragione’ e soprattutto, ‘infinita giustizia’.

‘Ragione’ come capacità di perseguire adeguatamente un fine come ‘bene’, in una concezione pratica ed etico-politica della ragione, un fine che nasce dalla mancanza, dal bisogno: la ragione, pertanto, è rapporto consapevole con la mancanza. Indice dell’universalità del bisogno e mancanza strutturale, è il ‘dolore’, dolore come esperienza fondamentale del nostro essere-nel-mondo.

Il dolore non è solo umanizzazione della sofferenza che caratterizza il nostro vivere, ma è il punto di intersezione del soggetto nel mondo e nel cosmo, la categoria che indica la corporeità e la ‘vis’ mentale, insieme con l’emozionalità e l’affettività. “Il dolore parla” – afferma Michelstaedter. E aggiunge: “Assumendo la persona del dolore’ possiamo ‘affermare la persona che ha in sé la ragione’” (C. Michelstaedter, PR-85). È proprio nella meditazione tra ragione e dolore che si snoda il pensiero di Michelstaedter, il cui motto può essere la frase di Eschilo cara a Simone Weil: “to patei mathos”, nel dolore risiede la conoscenza. (Eschilo, Agamennone, v. 177)

In queste domande che lo porteranno alla stesura della tesi di laurea PERSUASIONE E RETORICA ed alla morte non come scelta del suicidio, ma come capacità di lavorare nel vivo del valore individuale fino alla risoluzione finale, Michelstaedter agisce negando l’individualità data naturale e sociale, facendo “la propria vita sempre più ricca di negazioni”, fino a raggiungere la capacità di “consistere nell’ultimo presente”. (C. Michelstaedter, PR-84)

La lampada si spegne per mancanza d’olio, io mi spensi per traboccante energia” (C. Michelstaedter, Opera grafica e pittorica) - scrive Carlo nel suo andare verso la fine, quella lampada fiorentina che Carlo possedette davvero e che accompagnò non solo lui, ma l’amato Rico nel corso della sua solitaria vita, come poeticamente immagina e raffigura Claudio Magris nel romanzo UN ALTRO MARE.

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Così, nel teorizzare la propria morte, “ognuno è il primo e l’ultimo” – afferma Michelstaedter (PR:73) - e nell’assumere la persona del dolore, che suscita una domanda di senso, egli dialoga con gli amici di sempre e mette loro in bocca parole e pensieri che egli coltivava in tutte le sue manifestazioni, siano esse schizzi o pitture, saggi filosofici e poesie o lettere, lettere intense, che chiedono e pretendono risposte.

Così nell’appartata Gorizia mitteleuropea, agli albori di un nuovo secolo, Carlo Michelstaedter ed un gruppo di giovani ci restituisce un dialogo filosofico forte della tradizione umanistica delle scuole austro-ungariche, dialoghi che si riveleranno essere, per Carlo, dialoghi di fronte alla morte. Vacanze passate insieme in quel mare di Pirano e di Istria - l’ultima delle quali nel 1909 - che tanto amavano i giovani Michelstaedter, Carlo e la sorella Paula, con accanto gli amici più cari, le sorelle Cassini e soprattutto Rico e Nino, Enrico Mreule e Nino Paternolli, che evocano conversazioni appassionate e disordinate, insieme a quelle nella soffitta che vedrà Carlo spararsi un colpo di pistola nell’ottobre dell’anno seguente, dopo che lo stesso Rico gli aveva lasciato la sua pistola, nell’impossibilità di portarla con sé nella nave che lo avrebbe condotto al di là di quell’Adriatico conosciuto e amato, attraverso l’Oceano Atlantico.

Rico, infatti, nel novembre del 1909 sceglierà una vita solitaria e tormentata nella Patagonia selvaggia e sconfinata e Carlo ne riconoscerà l’autenticità, il coraggio dell’individualità, dell’essere totale. Compiendo quel gesto segreto, denso di significato per gli amici Carlo e Nino, Rico parte verso un altro mare, un altro cielo, un altro spazio, un’altra solitudine. A Rico in navigazione, nell’ammirazione per un gesto coraggioso che Carlo dichiara di non saper compiere, così scrive: “Hai compiuto l’unico beneficio che si possa fare da un amico agli amici”. (C. Michelstaedter, Epistolario)

Quello stesso anno, nel febbraio 1909, Gino Michelstaedter, il fratello maggiore di Carlo, era morto a New York, in un gesto suicida. Nel febbraio del 1910 Carlo segue i lavori di costruzione della tomba del fratello, le cui ceneri erano giunte da New York in quel cimitero ebraico di Valdirose, cui collabora egli stesso battendo in ferro delle maniglie, con un sentimento di sconfitta e di impotenza.

È in quello stato d’animo che Carlo concepisce IL DIALOGO DELLA SALUTE (C.Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi), che occupa quasi tutto il 1910 e che Carlo conclude il 7 ottobre, incrociandolo con la sua tesi di laurea, la ‘Persuasione e la Retorica’, opera d’obbligo, che, come Carlo dichiara, non persuaderà nessuno, ma, nel suo essere sconveniente e persino vana - come egli la definirà -, porterà alla dissoluzione il suo autore.

Il dialogo ci restituisce al modello letterario del dialogo platonico con un innesto di moralismo leopardiano – accanto alle riflessioni che nel loro carteggio compiono Carlo ed Enrico rispetto a Cristo ed a Buddha - ed è in bocca a Rico che Michelstaedter mette la sua invocazione alla morte: “Allora la tua vana invocazione della morte sarà atto di vita – poiché in un punto la tua volontà diffusa si sarà raccolta e avrà fatto di se stesso fiamma. L’uomo non chiede la morte –ma muore – e in ciò egli vive perché non chiede di essere ma è”. (C. Michelstaedter, Il dialogo della salute) Nel non chiedere la vita e non temere la morte, dunque, si risolve il dialogo, poiché “non c’è niente da aspettare, niente da temere – né dagli uomini né dalle cose. Questa è la via”. (ibidem)

L’intransigenza che Michelstaedter esprime non è meno radicale di quella che esprime nel pensiero e nell’azione il vecchio Tolstoj, che, ad una lettera di Mreule di adesione ai suoi principi, aveva risposto in spirito profondamente evangelico, non rifiutandolo, ma invitandolo: “Va’ e vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri”. (Claudio Magris, Un altro mare)

Rico che dialoga con Nino svolge una funzione profondamente maieutica, mentre Nino si contraddice, si confonde, cede all’emotività. Rico è l’amico forte, è colui che con il viaggio oltremare ha aperto un varco, ha rotto con i compromessi. È a lui che Carlo scrive: “Come le tue parole si sono fatte azione! Io mi nutro ancora oggi di parole e mi faccio vergogna” (lettera a Enrico del 29 giugno 1910).

Nell’andare di Rico c’è la stessa ansia di Carlo a dare un senso alla sua situazione esistenziale e lo fa a suo modo, esprimendo il senso di una libertà anarchica e solitaria, l’avventura senza approdi, che diventerà impossibilità da vivere o forse solamente di esprimere, trovando il senso di una vita, mentre l’anima si fa via via sempre più nuda e sempre più essenziale.

L’eredità di Carlo, tra la fuga in Patagonia e il ritorno al mare istriano, nel suo vagare sotto le stelle a cavallo, come sogna Carlo senza riuscire a uscire dall’ambiente familiare, lascia Enrico senza vie d’uscita, giacché la sua vita finisce per consumarsi in un’ansia di perfezione irraggiungibile, che ne brucia le energie, la sostanza più profonda, davanti a quel mare e a quello scoglio di Pirano e di Salvore, sulla punta dell’Istria, dove finalmente era tornato nel 1922, a conferma della sua fedeltà, della sua adesione ad un destino altro, eroico, ossessivamente fedele a se stesso, senza desiderare di possedere alcunché, tranne i testi classici che lo avevano accompagnato ovunque, nell’odissea della sua ricerca di vita avventurosa.

È a lui, a Rico, che Carlo, ne ‘Il Dialogo della salute’, mette in bocca la verità, l’annuncio fermo e definitivo della persuasione, e la scelta “del persuaso” del suicidio, contro la paura della vita e della morte. In quelle pagine estreme, Carlo lo raffigura come l’uomo libero cui le cose dicono ‘tu sei’ e che gode solo perché è, senza nulla chiedere né temere, né la vita né la morte, pienamente vivo sempre in ogni istante, fino all’ultimo (C. Magris, Un altro mare).

Eppure, quando Carlo gli aveva scritto “Attendiamo da te il più importante accrescimento della nostra realtà” (ibidem), Enrico, con il cuore rimasto a Gorizia, là in Patagonia, avrebbe potuto ripetere ciò che Carlo gli aveva fatto dire:

“Finché la morte togliendocida questo gioco crudele,

non so cosa ci tolga –se nulla abbiamo”

(C. Michelstaedter, Il dialogo della salute)

ricco solo del suo ricordo e della sua anarchia, che lo obbliga alla fedeltà assoluta al suo modello, cosciente della sua inadeguatezza, che potrebbe ripetere, come farà al ritorno, nel suo esilio istriano, come era stato esilio la sua vita in Patagonia, esilio da se stesso e dai discorsi della soffitta con gli amici più cari, gli unici:

“Altra voce dal profondo

ho sentito risonare

altra voce e più giocondo

ho veduto un altro mare.

Vedo il mar senza confine

senza sponde faticate

vedo l’onde illuminate

che carena non varcò”

(C. Michelstaedter, Poesie, I figli del mare)

È su quel mare che a Bahia Blanca, un anno dopo la morte di Carlo, Rico viene a sapere della sua morte. Eppure, per Rico, Carlo non è morto, non muore. Rico non pensa alla pistola che alla partenza gli ha consegnato perché la conservi, pensa invece a Carlo come a Buddha o Cristo, ad un profeta, ad un martire ed a questo profeta egli resterà fedele, per sempre:

Cara Paula – scrive alla sorella di Carlo – si avvicina il 17 ottobre. Ogni anno che passa, vedo Carlo più chiaramente grande…di anno in anno mi sento più attaccato a Carlo, santo e sapiente perfetto”. (C. Magris, Un altro mare)

ll nostro rapporto con la gente – come scriverà Benjamin –acquista nella solitudine che ci circonda quando ci immergiamo in quel mondo di cose, la profondità di un sonno in cui l’immagine onirica attende di mostrare alla gente il suo vero volto” (D. Frisby, Frammenti di modernità). Così aveva vissuto Rico dopo il suo ritorno nel 1922; come in un sogno, si era chiuso in un nostalgico diniego alla vita, sul grande sfondo del mare Adriatico, nell’incalzare degli eventi della Seconda Guerra Mondiale, cui assiste assente e tagliente:

A Salvore, sulla punta dell’Istria, riconosce il faro bianco, il viale di ulivi e fichi, i pini con tanti merli fra i rami, la barriera di cipressi, scolte che vigilano la riva, l’alloro e i fiori blu di cicoria, (…), i sassi sulla spiaggia / come ai tempi di Carlo – che la marea sommerge e scopre, sono ancora là, bianchi e levigati, splendono nel sole e nell’acqua”. (C. Magris, Un altro mare)

Era stato il luogo preferito di Carlo - scrive Enrico a Gaetano Chiavacci - l’altro grande amico fiorentino. Il mare, ancora una volta il mare, dove “Il porto non è la terra” – aveva scritto Carlo, e aveva aggiunto:

“(…) il porto è la furia del mare,

È la furia del nembo più forte

quando libera ride la morte

a chi libero la sfidò”.

(C. Michelstaedter, Poesie, A Senia)

Michelstaedter e Mreule, Carlo e Rico, una vita, la prima, consumata dall’ansia di perfezione, l’altra che si sviluppa all’ ombra di una presenza/assenza, che, dopo i grandi spazi luminosi d’oltreoceano, si consuma caparbiamente nel silenzio e nell’immobilità sullo scoglio di Salvore, con l’unico desiderio, - come scrive a Paula -, attraversando gli eventi bui e i contraccolpi della Guerra Mondiale in Istria, di non abbandonare il mare.

Il porto – aveva scritto Carlo al cugino Emilio, suo allievo amatissimo a cui aveva dedicato ‘Il Dialogo della salute’ –non è dove gli uomini fanno i porti a riparo della loro trepida vita: il porto, per chi vuole seriamente la vita è la furia del mare perché egli possa reggere diritta e sicura la nave verso la meta”. E aveva aggiunto: “Tu pure ora ricomincerai a navigare ed io so che non ti guarderai attorno per un porto calmo, che non vorrai l’inerte e ottusa vita, che è data a chi ama piegarsi, preferire alla libera vita del mare dove ognuno s’apre da sé la via ed è in porto sicuro là dove gli altri periscono” (lettera al cugino Emilio, 2-3 settembre 1910, da Pirano, Epistolario).

La libera vita del mare era diventata la preferita di Carlo, che meditava di andare a fare il marinaio dopo la laurea, come scriveva a Rico e a Nino. Tuttavia, la meditazione sui problemi della retorica e della persuasione diventò sostanza vitale del suo spirito, tema unico ed essenziale a cui tutti gli altri, compresa la sua vita, dovevano essere subordinati.

Nella coincidenza tra poesia e vita, tra cultura e destino sta la scelta della vita e della morte di Carlo. Alla sorella Paula così infatti aveva scritto:

“Lasciami andare, Paula, nella notte,

a crearmi la luce da me stesso,

lasciami andare oltre il deserto, al mare,

perch’ io ti porti il dono luminoso…”

(C. Michelstaedter, Poesie, Alla sorella Paula)

Alla scoperta delle contraddizioni del vivere, Michelstaedter oppone il segno del suo impegno umano, la pienezza artistica che coincide con il travaglio morale e filosofico, il mare come sete di spazio e d’infinito. Rico vivrà quello spazio fisico assoluto che rappresenta l’oceano varcato e la Patagonia sconfinata, ma saprà, come aveva sempre saputo, che a venire ‘ai ferri corti con la vita’ era stato lui, Carlo, che nel suo nichilismo mistico rappresentava il coraggio dell’individuo che sfida la vita scegliendo la morte, la morte-per-essere, in un’ansia assoluta d’infinito: “L’assoluto – aveva scritto Carlo – non l’ho mai conosciuto, ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce”. (PR:96)

Carlo apparteneva alla stirpe dei profeti, come Cristo e Buddha – pensava e scrisse Enrico nell’unica volta che aderì a dedicare alcune parole al ricordo dell’amico. Rico, come Carlo, aveva il coraggio di sentirsi solo, anche se sapeva che il vero persuaso era stato Carlo, colui che consiste e brucia e ‘nel punto della salute’, vive la ‘bella morte’. Rico invece aveva aspettato la morte senza fretta, nello “spegnere, ottundere il percepibile, non percepire più le cose, come Buddha”. (C. Magris, Un altro mare).

Così era vissuto Rico, accanto al mare, come era vissuto nella sconfinata Patagonia, lasciandosi vivere, “con il mare che dilaga da ogni parte”, mentre Carlo riposava fra i due cipressi piantati il giorno stesso del suo funerale e che ora hanno, nel triste cimitero ebraico de Nova Goritza, a due passi dalla frontiera, gli stessi anni che ci separano dalla sua morte.

Ma la giovane morte sorride – aveva scritto Carlo nella lirica a Senia, l’immagine cara e lontana che svanisce come quella di Euridice, quando il poeta le tende le braccia – a chi per la sua cura non la teme, la morte che congiunge e non divide, (…) e accoglie nel suo seno come il porto/ di pace chi ha saputo navigare / nel mar selvaggio, nel deserto mare/ che a terra non c’è volto per conforto”. (C. Michelstaedter, Poesie, A Senia)

Spenti ogni fiamma del desiderio e ogni timore, la morte diventa la meta, il porto cui approdare, nell’ansia di una perfezione interiore, che spense Carlo. Immobile nello scoglio sull’Adriatico, anche la vita di Rico si spegne in un’impossibile ansia di perfezione, che si chiude in un nostalgico e doloroso diniego, sullo sfondo del mare, quel mare a cui nessuno dei due amici, Carlo e Rico, aveva mai voluto rinunciare. E Rico, come un’antica quercia, aveva scelto e voluto l’immobilità della vita senza attese, davanti a quel mare che mai più avrebbe abbandonato.

Bibliografia:

Claudio Magris, Un altro mare, Garzanti, Milano, 1992;

Carlo Michelstaedter: Persuasione e rettorica (PR), Adelphi, Milano, 1990; Poesie, Adelphi, Milano, 1987; Il dialogo della salute, Adelphi, Milano, 1988; Opera grafica e pittorica, a cura di Sergio Campailla, Istituto per gli incontri culturali mitteleuropei, Gorizia, 1975

Gabriella Bianco, La hermeutica del devenir en Carlo Michelstaedter, Torres Aguero Editor, Buenos Aires, 1993; En el camino de la palabra, Torres Aguero Editor, Buenos Aires, 1995; La impaciencia de lo absoluto, Ediciones Suarez, Buenos Aires, 2007; Eticidad de la muerte, in, El campo de la etica, Edicial, Buenos Aires, 1997;D.Frisby, Frammenti di modernità, Il Mulino, Bologna, 1992.

Gabriella Bianco

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