DOVE VA LA DEMOCRAZIA IN AFRICA

Ubuntu - Umanità  verso gli altri

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Il nome “ubuntu” è un termine delle lingue nguni-bantu traducibile come "umanità verso gli altri", che, nella filosofia di origine sudafricana, teorizza un legame universale di scambio che unisce l’intera umanità.

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Sintetizzando l’”ubuntu” come la credenza filosofica che si esprime nel nesso che connette tutta l’umanità con ciò che siamo, secondo cui “ubuntu” significa che “io sono” poiché “noi siamo”, “ubuntu” e “umanità” sono profondamente collegate e costituiscono i fondamenti del pensiero, delle credenze e dell’identità africana,

Trasladando il concetto filosofico di “ubuntu” allo stato della giustizia e delle ideologie politiche come pratiche della democrazia in Africa, le domande sono pregnanti. Quando governi e partiti che si proclamano socialdemocratici continuano a utilizzare l’etichetta senza esercitare un’autentica democrazia e senza fornire beni pubblici che soddisfino realmente le aspirazioni e le esigenze delle persone, “ubuntu” rimane una aspirazione inappagata.

Alla luce di quanto detto, la nozione di "ubuntu" come filosofia applicata politicamente, deve tornare a ricevere un alto riconoscimento e deve essere lasciata evolvere nello spazio politico, nel plasmare la visione ideologica del mondo degli africani. Lo abbiamo sentito nei discorsi di Mandela, del vescovo Tutu, ed è uno dei concetti fondanti di quel movimento di rinascimento che vuole far fiorire il continente africano al di sopra delle difficoltà attuali.

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L’Africa è un continente in evoluzione, dove la democrazia è ugualmente in evoluzione. Il ritmo del cammino democratico dell’Africa è parallelo o simile a quello del suo stentato sviluppo economico. I recenti colpi di stato riusciti -e tentati- nel continente hanno generato discussioni sul fatto che la democrazia africana stia vincendo, ristagnando o retrocedendo.

La pandemia di Covid-19 ha messo in luce la debolezza intrinseca e le crepe nei sistemi di protezione sociale e di governance in tutto il mondo. In Africa molti governi hanno sfruttato la pandemia per reprimere le libertà civili e i diritti umani. I colpi di stato che si sono succeduti in tutto il continente hanno addotto ragioni come la crescente corruzione, il cattivo governo e le opportunità economiche chiuse o in diminuzione per interrompere l’ordine democratico o di governo.

L’Africa ha sperimentato colpi di stato in Mali, Guinea, Sudan e Ciad nel 2021. C’è stato un tentativo di colpo di stato fallito in Niger nello stesso anno, un altro colpo di stato nel 2022 nel Burkina Faso e mentre scriviamo, è in atto un tentativo di colpo di stato in Sudan.

Le fondamenta dell’ordine democratico nella maggior parte degli stati africani sono e rimangono fragili. Cosa significa questo per la democrazia africana e la politica?

Politica democratica contro sistema di governance.

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La pratica democratica è caratterizzata da almeno cinque principi:

  1. un sistema libero, equo e giusto di scelta e sostituzione dei leader politici entro i confini della legge;
  2. la creazione deliberata di spazi sicuri per la partecipazione attiva della cittadinanza alla vita sociale, religiosa, politica, civica ed economica;
  3. la sicurezza e la protezione dei diritti umani fondamentali, compresi i diritti socio-economici delle persone;
  4. la pratica dello stato di diritto in cui le leggi e le procedure si applicano ugualmente a tutti;
  5. il nutrimento e lo sviluppo delle istituzioni democratiche per sostenere e far crescere le norme, i principi e la cultura democratici.

In tutto il mondo, le democrazie hanno adeguatamente definito una comprensione del loro tipo di ordine o architettura democratica, che nasce dalla loro cultura peculiare e dalle esperienze vissute. In tali contesti, la politica ideologica può prosperare su un’architettura democratica non contraddittoria, che sia stata concordata collettivamente.

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Questo sembra non essere il caso dell’Africa. Lo studio di Peter P. Ekeh del 1975 “Colonialism and the Two Publics in Africa: A Theoretical Statement” riassume la causa principale delle sfide della democrazia africana. Ekeh sostiene che l’Africa deve ancora dare corpo a un ordine democratico che risponda ai suoi peculiari antecedenti storici ed esperienze vissute.

Egli distingue l’era del pre-colonialismo, del colonialismo, del governo tradizionale come “pubblico” informale dal “pubblico” della democrazia liberale occidentale adottata, o meglio, imposta, sostenendo che gli africani non sono stati in grado di consolidare attentamente e senza soluzione di continuità questi due pubblici nell’ambito di un’architettura democratica e di governance efficace.

I due pubblici hanno i propri attributi positivi e negativi. Mentre si dice che il sistema di governance tradizionale africano abbia promosso la democrazia basata sul consenso, si ritiene che il sistema democratico liberale occidentale abbia promosso la democrazia basata sull’anti-consenso con il suo sistema politico contraddittorio e altamente competitivo.

Con l’avvento dei partiti politici dopo il distacco politico-economico dai padroni coloniali attraverso le lotte anticoloniali e i passaggi drammatici attraverso i regimi militari, la maggior parte dei paesi erano stati a partito unico con una forte appartenenza al comunismo e al socialismo. Oggi ci sono paesi in Africa che sono multipartitici, bipartitici e alcuni sono ancora monopartitici. Ci sono paesi africani con oltre 50 partiti politici registrati. Questi partiti si sono evoluti dall’essere prevalentemente orientati a sinistra a partiti politici di centrosinistra, centristi e di estrema destra.

Se è vero che la maggior parte dei partiti contemporanei in Africa afferma ancora di essere socialista, un buon numero professa anche ideologie liberali conservatrici. In effetti, non sorprende che l’Internazionale Socialista (SI) e l’Internazionale Democratica Cristiana (CDI) siano le organizzazioni politiche internazionali con il maggior numero di partiti africani. Ci sono oltre 20 paesi africani che hanno lo status di membri a pieno titolo e di osservatori all’interno dell’IS.

La natura comunitaria della vita degli africani, la forma di governo tradizionale basata sul consenso e i movimenti per le lotte di indipendenza nel continente spiegano perché la maggior parte dei partiti politici del continente ha adottato il socialismo o la socialdemocrazia come propria ideologia politica, anche se le infiltrazioni di paesi antidemocratici come la Cina e la Russia sono sempre più marcate. Per esempio, di fronte al conflitto Russia-Ucraina-Occidente, molti stati africani, non condannando l’aggressione russa all’Ucraina, si sono messi di fatto dal lato russo e cinese astenendosi nelle diverse votazione alle Nazioni Unite che dovevano raccogliere voti e consenso. Il mondo occidentale sta perdendo terreno, così come il modello democratico che esso rappresenta.

La domanda è allora: cosa significa veramente appartenere o professarsi democratico, socialista, socialdemocratico, liberaldemocratico in Africa?

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Ci si sarebbe potuto aspettare, dati i tre o cinque decenni di politica ideologica in Africa, che i partiti politici socialdemocratici del continente sarebbero stati attivamente impegnati nella promozione e nello sviluppo di uno stato sociale nel continente. Sfortunatamente, questo non è altro che un miraggio. Molti partiti politici si professano socialdemocratici senza professare i principi fondamentali della democrazia e dei valori democratici.

La letteratura sullo sviluppo suggerisce che qualsiasi paese in via di sviluppo ha bisogno di un’ideologia politica o di uno stile di governance che non si discosti dai valori della socialdemocrazia, poiché la realtà oggettiva di un’enorme popolazione svantaggiata ed emarginata ha bisogno di sistemi di protezione sociale, reti di sicurezza e uno stato sociale funzionante. Tuttavia, da qualunque parte le si guardi, si incontrano forme di governance che inibiscono e soffocano lo sviluppo reale imperniato su principi e valori socialdemocratici ben definiti.

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Fino a quando l’Africa non inizierà davvero ad affrontare le sfide poste della governance realizzando la visone di “ubuntu”, che coniuga umanità con il concetto di comunità, sarà difficile arrivare ad un vero sviluppo sostenuto dalla politica. Fino ad allora, governi e partiti autoproclamati democratici continueranno a utilizzare l’etichetta senza rispondere alle aspirazioni e alle esigenze delle persone. Le migrazioni sono una risposta al deficit di democrazia ed al deficit nell’offerta di beni comuni e sociali.

Solo recuperando l’essenza di “ubuntu”, non solo come ideologia, ma anche e soprattutto come etica, basata sulla lealtà e sulle relazioni reciproche delle persone, sulla “benevolenza verso il prossimo”, sulla compassione e il rispetto dell’altro, è possibile ipotizzare un ritorno all’essenza della filosofia e modo di vivere africani. L’”ubuntu” esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei propri diritti, ma anche dei propri doveri, poiché è una spinta ideale verso l’umanità intera, un desiderio di pace.

Gabriella Bianco

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