Depenalizzazione falsa e confusione vera

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Il 02 Aprile scorso è entrato in vigore il decreto legislativo n. 28 del 2015, quello da più parti definito di “depenalizzazione” di una serie di reati. Diciamo subito che non è affatto così, poiché, detta in breve, una depenalizzazione cancella l’esistenza stessa del reato, nel senso che una mia condotta che prima mi avrebbe portato a risponderne davanti a un Giudice, a seguito di una depenalizzazione esclude in radice che ciò possa accadere.

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Ad esempio, oggi non è più reato, ma solo illecito amministrativo, la circolazione stradale senza copertura assicurativa. La situazione è ben diversa nel caso che ci occupa, dove le disposizioni di legge prevedono, tecnicamente, una “non punibilità” per la “tenuità del fatto”, in ordine ai reati che prevedono una pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, o una pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva. La differenza sostanziale con la depenalizzazione è che, trattandosi di condizione di punibilità, un procedimento penale dovrà comunque partire e sarà il Giudice a doversi esprimere in argomento, in due fasi distinte.

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La prima con preliminari verifiche che coinvolgono costatazioni oggettive e valutazioni propriamente soggettive, dovendo egli escludere che si possa applicare il trattamento di vantaggio per il reo se costui è un delinquente abituale, professionale o per tendenza, o ha commesso più reati della stessa indole, o ha commesso un reato consistente in condotte plurime, abituali e reiterate (come lo stalking o i maltrattamenti in famiglia), o ancora se ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche nei confronti di animali, se ha adoperato sevizie, o se ha approfittato delle condizioni della vittima impossibilitata o incapace di difendersi. Effettuata la prima verifica sulla astratta possibilità di applicare questa causa di non punibilità, dovrà poi valutare, qui sul piano più squisitamente soggettivo, se il fatto attribuito al reo sia “tenue” oppure no. E quando poi dovesse anche ritenere “tenue” il fatto, potrebbe scontrarsi con l’atteggiamento ostativo sia del danneggiato dal reato e sia dello stesso reo, il quale dovrà valutare se per caso non gli convenga andare avanti sperando in una sentenza di assoluzione piena, in modo da evitare che il parere di tenuità gli sporchi la “fedina”, visto che questa legge prevede una apposita sezione del Casellario per raccogliere i provvedimenti sulla ritenuta “tenuità”.

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Ora, in generale, io credo che si debba salutare con favore una iniziativa che, attraverso paletti incrociati che formano un setaccio a maglie strette, lascia passare indenni da conseguenze penali condotte scomposte ma in fondo da semplici “ragazzacci”. Temo però che il mezzo che si è scelto genererà una cavaiola di atteggiamenti e pronunce che vanificheranno il senso delle norme e anche gli sperati risvolti deflattivi. Infatti, lasciare al singolo Giudice l’onere di valutare quello che è “tenue” e ciò non lo è, rappresenta di per sé un pericoloso vulnus al principio di tassatività delle ipotesi penalmente rilevanti, e ciò aprirà una sterminata casistica che sarà anche difficile ricondurre ad unità di sistema in grado di orientare cittadini e gli stessi operatori del diritto. In più non si capisce bene che vantaggio effettivo potrebbe averne l’imputato che si trovi nelle condizioni di usufruire comunque dei normali benefici di legge (sospensione della pena e non menzione), visto che anche questo giudizio di “tenuità” sarà trascritto in una apposita sezione del Casellario, costituendo a tutti gli effetti (o quasi) un “precedente”.

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Mettiamo un caso pratico (vero perché mi è capitato, anche se non si è concluso): un giovane portalettere incensurato lascia volontariamente incustodito un certo numero di comunicazioni di posta semplice contenenti fatture per utenze da pagare. Questo tipo di condotta è in generale punito dall’art. 616 del codice penale e come tale si colloca astrattamente nelle ipotesi di cui parliamo. Sta di fatto che ogni Giudice potrebbe legittimamente ritenere, avendone facoltà, che il fatto sia “tenue” o meno, secondo personalissime convinzioni, e così lo stesso, identico fatto, potrebbe portare un cittadino ad una sentenza di condanna o, viceversa, di non punibilità, a seconda di come la pensa il Giudice che gli capita, perché a un uomo (il Giudice) si lascia il compito troppo gravoso di interpretare, con implicazioni e sfaccettature che con il diritto nulla c’entrano, quello che lui immagina sia un sentire comune di quel momento storico circa l’episodio su cui è chiamato a pronunciarsi. Prepariamoci, di conseguenza, ad inevitabili appelli e ricorsi in Cassazione, sperando che nel frattempo intervenga lo stesso legislatore, anche costituzionale, a correggere le storture di una legge che nasce con troppe falle ma che dobbiamo, ripeto, apprezzare nelle sue intenzioni di base. Insomma, è chiaro per tutti che non si tratta di “depenalizzazione”, ma solo di cristallina confusione?

Nicola D’Agostino

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