E IO…TRA VOI DUE

Il ruolo dello psicologo: dal conflitto alla mediazione

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“…C’è un tempo perfetto per fare silenzio guardare il passaggio del sole d’estate
e saper raccontare ai nostri bambini quando è l’ora muta delle fate.

C’è un giorno che ci siamo perduti come smarrire un anello in un prato
e c’era tutto un programma futuro che non abbiamo avverato.

Dio, è proprio tanto che piove e da un anno non torno da mezz’ora sono qui arruffato dentro una sala d’aspetto di un tram che non viene non essere gelosa di me della mia vita non essere gelosa di me non essere mai gelosa di me.

Dicono che c’è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare io dico che c’era un tempo sognato che bisognava sognare.”

Ivano Fossati, “C’è Tempo”

cms_12865/DSC_2838.jpgCaro Lettore,

ci ritroviamo su I sentieri di Psiche…camminiamo e lungo il percorso troviamo davanti ai nostri occhi due genitori e un bambino: i due discutono animatamente, poi non si parlano per lunghi attimi e il loro bambino si domanda due cose: perché si comportano così? A chi devo dare amore e attenzione? In realtà il piccolo si sta chiedendo con chi dei due debba essere leale: si tratta del conflitto di lealtà.

Lo psicologo è colui che si occupa della psiche, richiamando l’antico significato di questa parola, derivante dal greco e che vuol dire “anima”; pertanto, occupandosi dell’anima cerca allo stesso tempo e modo di “curarla” e cioè di sollevarla dal peso del dolore e del disagio.

E parlando di “patologia della famiglia” ci si riferisce non soltanto ad un eventuale psicopatologia di un componente di essa ma anche e spesso ad una vera e propria patologia della relazione e della comunicazione familiare; bisogna dire anche tale patologia delle relazioni familiari è sempre esistita (come dai manuali scritti da Minuchin) tuttavia, oggi il nucleo familiare diviene bersaglio, spugna di tutti i conflitti, le frustrazioni le sconfitte che chi lo compone vive quotidianamente dentro e al di là della propria casa.

Oggi nella famiglia scattano alcuni meccanismi di conflitto, di rabbia repressa, di frustrazioni che generano comportamenti fisici e psicologici violenti sia negli adulti che nei minori. C’è nella famiglia una incapacità di reggere il peso psicologico e affettivo degli eventi stresso geni e nello stesso tempo vi è la manifestazione di un disagio profondo che mette in discussione ogni componente di essa.

Essendo luogo in cui tanti sono gli investimenti psicologici e affettivi, il nucleo familiare produce da sé conflitti e incertezze; e quando non è esso a provocare disagio diventa comunque “contenitore” implosivo ad esito esplosivo di uno stato di insofferenza ed esasperazione.

La sociologia definisce la famiglia contemporanea come “sistema vivente, altamente complesso, in cui si realizza quella esperienza vitale specifica che è fondamentale per la strutturazione dell’individuo come persona, cioè come individuo in relazione nelle sue determinazioni di genere e di età, quindi nei rapporti tra i sessi e le generazioni”. Dunque, se la famiglia oggi non consente per vari motivi - che in questo mio lavoro proverò ad analizzare – una formazione e una strutturazione sana dell’individuo, quale rapporto avrà costui col mondo? Le sue relazioni affettive, sentimentali, professionali, sociali di che qualità potranno essere?

E’ la domanda principale, a mio avviso, che chi si appresta a svolgere una relazione d’aiuto della famiglia dovrebbe porsi; il benessere di un individuo può rappresentare la salvezza dell’intero nucleo familiare, così come una comunicazione distorta può scatenare reazioni a catena sulle quali intervenire si può ma a livelli di complessità sempre più elevati?

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Nella fattispecie dell’argomento, si parla di conflitti intrafamiliari riguardanti i coniugi e le conseguenze subìte dai propri figli. Ancor prima però di parlare degli esiti sui figli, ho scelto di partire dall’origine e cioè dalla coppia; in fin dei conti la famiglia nasce da un fidanzamento, poi il matrimonio e poi la procreazione.

Pertanto, se il fisiologico ciclo della famiglia segue questi passi, perché – mi domando – nell’analisi delle problematiche che la colpiscono non seguire lo stesso percorso?

Anche se apparentemente e formalmente i due ruoli dello psicologo clinico e psicologo forense non hanno o non dovrebbero avere nulla in comune, nella realtà delle controversie legali – come questa - legate alle separazioni, tale netto confine a cui ci guida la letteratura si rivela estremamente labile.

Per descrivere cosa sia il mobbing coniugale, è necessario innanzitutto “chiedere in prestito“ al diritto del lavoro – sede giurisprudenziale in cui nasce il termine - la definizione di mobbing.

Circa la derivazione del termine, esso deriva dal verbo inglese “To mob” che vuol dire “attaccare, aggredire in massa”, che a sua volta deriva da un’espressione latina: “mobile vulgus”, che significa gentaglia, persone meritevoli di disprezzo, l’onda m Il primo ad usare questo termine, alla fine degli anni 70, fu l’etologo Lorenz, che descrisse il comportamento di alcuni volatili che aggredivano un loro simile per emarginarlo ed estraniarlo dal branco.

Negli anni ’80 lo psicologo del lavoro Leymann pensò di applicare il termine mobbing al contesto lavorativo, osservando alcuni operai ed impiegati che erano stati perseguitati psicologicamente sul luogo di lavoro. Dopo una serie di studi dello stesso Leymann e di Gustavsson, nel 1996 venne data la definizione ufficiale di tale fenomeno: “Comunicazione ostile e non etica perpetrata in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo che, a causa del mobbing è spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa e lì costretto per mezzo di continue attività mobbizzanti. Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta e per un periodo di tempo (almeno sei mesi). A causa della alta frequenza e della lunga durata, il mobbing crea seri disagi psicologici, psicosomatici, sociali”.

Ancora lo psicologo del lavoro Harald Ege, il primo a creare un modello teorico del mobbing in Italia, che fosse idoneo al contesto lavorativo italiano dice: “Il mobbing è una guerra sul lavoro in cui, tramite la violenza psicologica, fisica e/o morale, la vittima è costretta ad eseguire la volontà di uno o più aggressori. Questa violenza si esprime attraverso attacchi frequenti e duraturi che hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, la reputazione e la professionalità della vittima”.

Pertanto, data un’approssimativa definizione del fenomeno mobbing, emerge chiaramente il carattere persecutorio dei comportamenti attuati dal mobber al fine di distruggere l’equilibrio psichico della vittima, sfiancandola sempre di più sino a farla desistere dal continuare a lavorare, ad essere genitore (come vedremo nel caso di mobbing intrafamiliare) e talvolta anche dal continuare a vivere.

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Nel diritto di famiglia, è ancor più difficile tratteggiare un quadro di mobbing soprattutto perché, in materia giurisprudenziale, non sono state fatte ricerche esaustive.

Si è cominciato a parlare di tale fenomeno a seguito di una sentenza della Corte d’Appello di Torino del 2001, che ha ritenuto il mobbing familiare causa giustificante della separazione, dal momento che tali comportamenti erano lesivi della dignità del coniuge e pertanto in contrasto con i doveri sanciti dall’istituzione del matrimonio.

Anche nel contesto intrafamiliare – come sul lavoro – il mobber attua nei confronti della vittima molestie psico-fisiche, maltrattamenti, ingiurie, denigrazioni, al fine di sminuirla e disintegrarne l’integrità psichica e talvolta morale; è consueto, infatti, che la vittima finisca per sentirsi in colpa per ciò che non ha commesso o addirittura per vedersi come il suo mobber-persecutore la dipinge e la diffama anche all’esterno del contesto familiare.

Con l’applicazione della nuova legge sull’affido condiviso, si auspica un arginamento del fenomeno quanto meno in relazione alle ridotte concrete occasioni di esercitare pressioni e ricatti sull’altro genitore.

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L’istituto dell’affido monogenitoriale, invece, contribuisce a rendere il fenomeno del mobbing di maggiore gravità ed evidenza. Questo tipo di affidamento dei figli attribuisce infatti al genitore affidatario l’esercizio della potestà genitoriale sui minori, pur riservando ad entrambi i genitori le decisioni di maggiore interesse. Questo significa che, in pratica, il coniuge affidatario adotta qualsiasi decisione riguardante i minori in disaccordo e spesso anche all’insaputa dell’altro genitore.

In molteplici occasioni, ho parlato a voi Lettori delle dinamiche che si innescano nella coppia coniugale e di riflesso sui figli, soprattutto quando si tratta di bambini; è necessario diffondere una cultura della buona e sana separazione: viviamo ancora in un’epoca storica in cui si confonde il concetto di separazione con quello di divisione: la separazione coniugale non è genitoriale. Mettere in atto una buona separazione vuol dire negoziare con l’ex coniuge nuove regole di genitorialità, vista la divisione coniugale.

La mediazione, infatti, molto spesso richiesta e attuata dagli psicologi, è mirata a ripristinare un equilibrio e una capacità di negoziazione venute meno a causa dell’astio nella dinamica della coppia; mediare vuol dire, quindi, dare alla coppia genitoriale, una nuova prospettiva di accudimento condiviso nonché offrire una opportunità di superamento e risoluzione della frustrazione derivante dal fallimento dell’esperienza coniugale.

Alla prossima settimana

Teresa Fiora Fornaciari

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