E’ MORTO FRANCO LOI

Uno dei più grandi poeti del dopoguerra

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cms_20547/1.jpgÈ morto Franco Loi. Se n’è andato nella sua casa di Milano, assistito dalle cure amorevoli della figlia Francesca, in un gelido pomeriggio di gennaio, gravido di pioggia e di neve, quasi come anche il tempo volesse tributargli un omaggio – con la sua s’genada – di solito riservato ai grandi. E grande, Loi, lo era davvero. Ne dà conto la stampa nazionale, in primis Il Corriere della Sera, con un eccellente articolo di Paolo Di Stefano, gl’innumerevoli interventi sui blog, sui forum, sui siti letterari on line e Sky, quasi in tempo reale, nelle sue breaking news.

Era nato nel 1930 a Genova, da padre sardo e madre emiliana. Trasferitosi giovanissimo con la famiglia a Milano nel 1937, si diploma in ragioneria, per lavorare prima allo scalo merci di Lambrate e successivamente a quello di Genova. Dagli anni ’60 è alla Rinascente, come addetto alle pubbliche relazioni, successivamente entra in Mondadori.

cms_20547/2.jpgIn gioventù è stato attivo militante comunista, successivamente aderisce al mondo della nuova sinistra e infine si stacca dall’impegno politico attivo per dedicarsi alla letteratura. Affermava: "scrivevo versi per quattordici ore filate al giorno, mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno". In effetti si ravvisa in molte delle sue opere una religiosità “libertaria e un po’ anarchica”. Si avvicina alla poesia soltanto nel 1965, scrivendo dapprima in italiano, ma poi, per un impulso “che lui stesso non riusciva a definire”, venne fuori il milanese come “una corrente di ritmi e suoni entro cui le parole e le immagini trovavano, quasi spontaneamente, una loro collocazione”. Il dialetto di Loi è un milanese quasi del tutto estraneo alla tradizione di Carlo Porta e di Delio Tessa, mescolando la parlata proletaria cittadina degli anni ’50 con elementi contadini, rurali, anche allora quasi arcaici (e per questo modernissimi). Senza contare gl’influssi dell’emiliano materno, del latino, di numerosi altri contributi linguistici rielaborati o reinventati liberamente. Vincenzo Guarracino (poeta, saggista, traduttore, critico, curatore di numerose antologie sulla poesia contemporanea) così lo ha ricordato il 4 gennaio, nello stesso pomeriggio della sua scomparsa: È uno degli ultimi grandi testimoni di una stagione forse irripetibile della poesia italiana, Franco Loi, sicuramente tra i maggiori poeti italiani neodialettali dell’ultimo mezzo secolo, assieme ad Albino Pierro e a Tonino Guerra: con una sua precisa peculiarità, quella di aver saputo fare scelte forti e controcorrente (non è un caso che uno dei suoi testi più significativi si intitoli Liber, “libro” ma anche “libero”), sempre però con estrema mitezza, coniugando passione intellettuale e civile, attenzione a un mondo di verità e rispetto delle ragioni profonde dell’io.

cms_20547/3.jpgNel teatro di una situazione, quale è quella italiana a partire dalla fine degli anni ’60, per lui il dialetto milanese, quello parlato nella Milano degli anni ’20-’30, diviene una sorta di lingua utopica, l’adozione di un punto di ri-partenza, più che da un luogo originario, da una sorta di identità comunitaria, dove si può esprimere la purezza. È da qui, da questa scelta, salutata fin dagli inizio degli anni ’70 da vivi consensi, anche se non senza contrasti, che ha preso l’avvio un’avventura perseguita fino alla fine, fino all’oggi della sua scomparsa, con grande coerenza, in cui nel tempo ha trovato espressione una profonda coscienza storica assieme a una grande sensibilità letteraria, su una tastiera stilistica estremamente duttile e variegata, di volta in volta realistica, orfica, epica, lirica, sempre fedele alla sua anima profondamente popolare, a una religio delle cose e degli uomini, visti nella loro concretezza e al tempo stesso lievitanti con naturalezza, in virtù di un empito di emozione, in “belessa sena feng nel so pensàss” (“senza finzioni nel suo riflettersi”), così come è condensato anche in un distico di Umber (1992): “Sunt un puèta quand el dì l’è sera, / che véd sa la belessa in due la gh’era”. Anche l’International Web Post intende tributare un omaggio a Franco Loi, pubblicando una sua poesia. Sono versi algidi e incandescenti, semplici e sublimi, la cui bellezza può ferire. Addio, Maestro! E vàrdas, da là!

Diòspirus cachi sü büttér de nev,
‘me pomm d’aranz ch’ un’aria de penser
vedra j a penzula al nevurasch di tecc,
e i pess durâ de Cina disen plàgass
nel tòrbed de la vasca presuné,
e ‘l Bobi, negher bòtul, can schifus
che lecca merda e va, cume quj orb
che passen ‘rent a tí cul frecc di mort,
e, de lifrun, la bissa scudelera
la cerca, nel raspà che fa la tèra,
i fiur del paradis, l’urtensia, i spûs,
che lívren fâ d’argent al brüsch de l’üga
lung a la müra inamurâ del sû,
e Meri, urizunt fâ de tristessa,
sciura di can, tusetta che del ciel
gelusa te sgarràvet la s’genada
di stell de sass süj cachi slünascent, tí, Meri,
d’una serva sgravaggiada
passer de scund, vestina ch’aj cancell,
cuj öcc de sû, tra i glícin la slisava,
e l’umbra del giardin pareva lé, niascín,
che dai ramas’g te s’inveggiava
trí méter fâ de níul, culmègn penser,
la frunt che, nel sugnàss, la smentegava
i ciam, el rosc di fjö süj strâ de nev, Meri di fiur,
maestra de bardassa,
arlía d’amur, ch’al curr di desdòtt ann,
cuj tò silensi e la sapiensa ghiba,
d’un tumb, ansius murí, te ghé lassâ,
nüm fàtuv, nüm strigòzz, strafúj ‘me tí,
che sül catràm luntan d’una quaj strada
el ciel l’era un linsö de névur fint.

(traduzione)

Frutti di Dio, cachi su pani di burro di neve,
come mele d’arancio che un’aria di pensieri
vetrata li penzola alla nuvolaglia che minaccia dai tetti,
e i pesci dorati della Cina si dicono parole vane
nel torbido d’acqua della vasca prigionieri,
e il Bobi, botolo negro, cane schifoso
che lecca merda e va, come quei ciechi
che passano accanto a te col gelo dei morti,
e, da pigraccia, di soppiatto, la corazzata tartaruga
cerca, nel raspare che fa alla terra,
la serenella del paradiso, l’ortensia, le libellule,
che finiscono volando la loro vita fatte d’argento
al brusco dell’uva
lungo la mura innamorate del sole,
e Mery, orizzonte fatto di tristezza,
signora dei cani, ragazzina che del cielo
gelosa rubavi furtiva il gelare del gennaio
delle stelle di sasso sui cachi illuminati dalla luna,
tu, Mery,
di una serva sgravata
passerotto da nascondere, vestina che ai cancelli,
cogli occhi di sole, tra le glicini scivolava,
e l’ombra del giardino sembrava lei,
uccelletto da cova,
che dalle glacce sui vetri vedevi invecchiare
tre metri fatti di nuvole, pensieri di tetti e comignoli,
e ti s’invecchiava la fronte che, nel sognarsi,
dimenticava i richiami,
il frottare dei ragazzi sulle strade di neve,
Mery dei fiori,
maestra di ragazzaglia,
visione d’amore, che al correre dei diciotto anni,
coi tuoi silenzi e la sapienza gelida,
d’un improvviso, rovinoso, ansioso morire,
tu ci hai lasciati,
noi fatui, noi spavaldi e miserelli, malcresciuti come te,
che sul catrame lontano di una qualche strada
il cielo era diventato un lenzuolo di nuvole finte.

Raffaele Floris

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