Fisco e prostituzione

Anche in Italia la modernità, tra le varie forme in cui può esprimersi, ha assunto quella di una maggiore considerazione verso chi del sesso fa una libera professione, intendendo, per “libera”, l’assenza di costrizione da parte di eventuali sfruttatori. Questa maggiore considerazione, per ora, è circoscritta all’aspetto fiscale. Sarà forse l’esigenza di cassa o il venire incontro a un pensiero sempre più diffuso di equità, ma il dato è che se fino a poco tempo fa i tentativi di assoggettare a tributi i proventi delle attività di prostituzione erano puntualmente respinti, le cose iniziano a cambiare. Prima, gli stessi operatori del settore che volevano spontaneamente collocare la loro professione all’interno di una categoria che consentisse di presentare una regolare dichiarazione dei redditi, erano destinatari di un rifiuto, nel senso che Camere di Commercio e Agenzia delle Entrate non li ammettevano ad aprire partite Iva e posizioni fiscali in genere. In altri casi la Guardia di Finanza apriva procedure di accertamento che puntualmente erano impugnate e annullate dalle Commissioni Tributarie per la mancanza di una regolamentazione che assoggettasse a tassazione il corrispettivo di prestazioni sessuali. A invertire la rotta ci ha pensato la sezione tributaria della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 15596 del 2016.
Difatti, con questo provvedimento si è sancito il principio secondo cui la prostituzione, “libera” nel senso sopra specificato, è attività lecita e come tale genera un reddito imponibile ai fini IRPEF e, se effettuata in maniera abituale, è soggetta anche alla tassazione IVA. La questione per la quale si è pronunciata la Corte prende le mosse da un accertamento fiscale posto in essere dalla Guardia di Finanza nei confronti di una donna, proprietaria di beni di lusso e titolare di vari conti correnti attivi. Questa Signora, forte dei precedenti in materia, aveva impugnato gli atti sostenendo apertamente che soldi e beni erano i proventi della propria attività di prostituta e quindi liberi da ogni imposizione.
Le è andata decisamente male, poiché gli alti Giudici, nel considerare la natura lecita del lavoro (è solo lo sfruttamento a costituire reato), non hanno avuto esitazione a dichiarare la natura reddituale dei ricavi derivanti dalla vendita del proprio corpo per fini sessuali, da considerarsi, tecnicamente, come “redditi diversi”. Non è mancato il cenno ad una pronunzia della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (in breve CEDU), del 2001, che ha riconosciuto l’attività di prostituzione come una prestazione retribuita, ed è stato specificato che la prostituzione abituale od occasionale genera comunque un reddito imponibile alla tassazione Irpef. La differenza è che, in caso di abitualità, questo lavoro rileva anche ai fini della imposizione Iva ai sensi del DPR 633/1972.
L’uovo di Colombo, dunque. I dati sul giro di affari generato dalla prostituzione in Italia sono molto diversi a seconda della fonte che li pubblica, ma è certamente presumibile, dato l’alto numero di offerenti prestazioni sessuali a pagamento, che si assesti intorno ai dieci miliardi di euro l’anno. Certo non sarà facile scovare gli “evasori” in questo specifico mondo, poiché i pagamenti avvengono in nero, ma con i mezzi di accertamento di cui dispone attualmente l’Agenzia Delle Entrate, tenore di vita e titolarità dei beni offriranno inevitabilmente il fianco a prevedibili recuperi di imposte evase e a consentire di far quindi cassa ben ricca con i proventi del meretricio.
Resta aperta una questione etica di non poco conto, e cioè se sia giusto che lo Stato lucri su questo tipo di attività, facendo di tutti i cittadini che lo compongono, anche di quelli che sono visceralmente contrari alla prostituzione, dei fruitori indiretti del denaro che ne deriva. Ma questa è un’altra storia.
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