Husky, quell’estate del ‘43

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Questa nostra finestra aperta sull’operazione Husky è dedicata a Carl Ludwing Long, trucidato in Sicilia nel luglio del 1943, per mano dei "buoni", con indosso una divisa dei "cattivi"; lui che, fuori da qualsiasi archetipo, seppe scrivere, da tedesco in tempi cupi, una bella pagina di lealtà sportiva e amicizia - non solo olimpionica - con l’ afroamericano Jesse Owens, l atleta che fece infuriare Hitler

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Riposa in pace. Amen. Le ultime parole del requiem danno il vero senso della guerra.

Quando se ne percorre un cimitero, si ha il senso dell’assurdità, della relatività, del rumoroso silenzio. Ve ne sono, in Sicilia, di questi luoghi della riflessione e della memoria. Assieme a cippi, targhe, fortificazioni, testimoniano che una storia non remota ha lasciato un’indelebile traccia, come sempre accade per quel che attiene alla più grande isola del Mediterraneo.

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Gli stessi pensieri vengono in mente leggendo a Enna il manifesto della locale sezione dell’Associazione Nazionale vittime di Guerra Onlus, che invita i cittadini alla Messa di suffragio nella Chiesa “Mater Eclesiae”, nell’anniversario dei bombardamenti da parte delle Forze alleate, in memoria dei Caduti Civili.

cms_18898/3.jpg Non ci sono vinti e vincitori in una guerra. Non ci sono neanche tutti buoni da una parte e tutti cattivi dall’altra parte. La storia dovrebbe prescindere da dicotomici manicheismi, pur dovendosi sempre riconoscere responsabilità e gradazioni obiettive di esse, nitide se pensiamo al nazifascismo. Basta però volgere lo sguardo al contesto storico degli anni ‘40 del secolo scorso per cogliere l’humus di una disumanità più ampia e profonda. Le leggi antiebraiche in Germania e Italia paiono porsi in un triste mosaico tra i cui pezzi si trovano le leggi contro i neri negli Stati Uniti e la sanguinosa dittatura di Stalin in Russia (non a caso, spartitore della Polonia dopo una stretta di mano con la svastica).

Stragi sono state compiute da entrambe le parti. In mezzo, l’essere umano. Ricordiamo – solo perché troppo poco se ne parla – quella compiuta nelle campagne attorno all’aeroporto di Biscari. Il capitano americano Compton ordinò la fucilazione di 36 prigionieri italiani, catturati dopo la conquista del campo d’aviazione. Sulla scia del suo superiore, il sergente West uccise personalmente a colpi di mitra “Thompson” altrettanti prigionieri italiani. Sia Compton che West finirono davanti alla corte marziale: il primo venne prosciolto da ogni accusa; il secondo, condannato all’ergastolo ma, liberato dopo pochi mesi, morì in Normandia. Riposa in pace. Amen.

Nella guerra ci sono morti, feriti e sopravvissuti, senza distinzione di territorio di origine e bandiera. Non sono da invidiare i sopravvissuti per il trauma che hanno vissuto. Tra l’altro, milioni di loro hanno certamente perso dei congiunti, delle persone care.

La bufera dell’ennesima inutile guerra, nonché seconda a livello mondiale (1939 – 1945; per l’Italia, dal giugno del 1940), aveva coinvolto la Sicilia già con le cartoline precetto, con gli ordini rivolti a giovani di imparare a considerare nemico qualcuno lontano dalla propria casa: la guerra delle ansie, delle privazioni e dei lutti per chi restava in Trinacria. Poi venne l’epoca della guerra portata dal cielo sulla testa e sui tetti dei Siciliani: distruzione e terrore a domicilio. Di lì a poco – e del resto i bombardamenti aerei delle grandi città ne erano prodromi – giunse il momento del teatro bellico sul suolo siciliano, con creazione di un fronte: soldati contro soldati, a completamento di un immane dolore.

Il suggestivo cimitero canadese di Agira fa riflettere. Come quelli inglesi e tedesco nel catanese. E a Catania, per avere una idea dettagliata e tragica di cosa sia stata la bufera bellica, esiste un ricco museo storico dello sbarco in Sicilia del 1943, nella zona delle Ciminiere, non lontano dalla stazione. Nella notte tra il 9 e il 10 luglio del 1943, dopo che unità aviotrasportate, paracadutate nelle retrovie, avevano creato non poco scompiglio e dopo che cannoneggiamenti furono effettuati dalle navi al largo, la guerra entrò in Italia, nel senso che truppe statunitensi e anglo-canadesi sbarcarono, con il loro colossale armamentario, nel tratto di costa sud-orientale della Sicilia, in pratica prendendo terra nel golfo di Gela e nel golfo di Noto, tra Licata e Avola. Non si attaccò frontalmente Augusta, roccaforte pressoché imprendibile dal mare, che si preferì prendere via terra, mentre l’ammiraglio Priamo Leonardi, iniquamente dal fascismo accusato di una codardia non vera, cercava di tenere in vita una parvenza di reazione all’incalzare degli anglo-americani.

Strana storia quella di Priamo. Se Umberto fu il re di maggio, il contrammiraglio Priamo Leonardi fu il comandante di giugno. Infatti, egli è stato, dall’8 giugno al 13 luglio 1943, il comandante della piazzaforte di Augusta, la meglio armata della Sicilia. Del comandante Priamo e dello sbarco in Sicilia si parlò nella notte tra il 24 e il 25 luglio, a Roma. Nella notte del Gran Consiglio, prima dell’ordine del giorno Grandi, che portò al defenestramento di Mussolini e al suo arresto. Tra l’altro, Mussolini, ancora oggi, risulta cittadino onorario di Augusta (no, la Resistenza in Sicilia non vi fu …). Traditore ed eroe fu giudicato Priamo. Traditore per i fascisti del Gran Consiglio e poi per i fascisti “puri e duri” (eufemismo) della Repubblica di Salò che lo condannarono a morte in contumacia. Eroe fu invece per lo Stato Italiano che, nel 1946, gli conferì la medaglia d’argento al valore militare. Anche Priamo visse fino a tarda età come il Re di Troia. Morì nel 1984, a 96 anni. Re Priamo vide lo sbarco dei Greci e la caduta di Troia ad opera di Ulisse e dei suoi compagni. Il comandante di giugno vide lo sbarco degli anglo americani e la caduta di Augusta. Nomen omen! Il caso volle che sia Ulisse, dopo la battaglia di Troia, che gli alleati, secoli dopo per l’operazione Husky, sbarcassero entrambi a Portopalo, presso l’Isola delle Correnti, dove si incontrano, si baciano, il Mare Ionio e il Mare Mediterraneo. Anche San Paolo approdò qui nel suo viaggio da Malta verso Roma.

Quella che venne chiamata Operazione Husky fu, nel breve volgere di poco più di un mese estivo del 1943, una delle mattanze della Seconda Guerra Mondiale.

Era l’attacco alla “Fortezza Europa” del dittatoriale Asse Roma-Berlino. La Sicilia è ponte e porta, sicché, una volta che gli Alleati avevano avuto la meglio su Tedeschi e Italiani in Nord Africa, non poteva seriamente escludersi che, per colpire al cuore Berlino – sbarazzandosi anche di Roma –, Inglesi e Americani pensassero di risalire la penisola. Essendo chiaro che dalla sponda Sud del Mediterraneo gli Alleati fossero pronti a invadere l’Europa navigando verso Nord, Hitler pensava alla Sardegna, Mussolini pare sperasse in un attacco sulle coste francesi o balcaniche. Sennonché, l’Italia sta proprio nel bel mezzo del Mare Nostrum; stretta e lunga com’è, pare una passerella pronta per essere percorsa da uomini, mezzi e la cattiveria bestiale che ogni guerra reca con sé. E, prima della penisola del Bel Paese, la Sicilia.

Si poteva lasciare Malta in mano agli inglesi? Si è potuto. E, per pochezza di organizzazione, Pantelleria, unico cannone puntato contro la spola aerea e navale tra Africa e Sicilia, venne perduta nel Giugno 1943. Senza strategie, è inutile dissertare persino di guerra: è più realistico scomodare la parola “suicidio”. Inutile ragionare in guisa d’ucronie e, d’altronde, a nessuno verrebbe in mente che sarebbe stato meglio che il nazifascismo prevalesse; ci mancherebbe!

La Sicilia, piena di punti propizi per l’approdo, era pronta a essere quel che, meno di un anno dopo, sarebbe stata la Normandia del D-Day (giugno 1944). In effetti, sussistono delle forti assimilazioni tra quella operazione (“Overlord”) e quella riguardante la Sicilia, che prese il nome in codice di “Husky”. A difenderla dall’urto di quasi 2800 navi da trasporto, circa 1800 mezzi da sbarco, 280 navi da guerra, 1000 cannoni, 600 carri armati e 4000 aerei, i militi italiani del generale Guzzoni (con comando nella strategica Enna), poi sostituito dal tedesco Hube (non uno qualunque, “der mensch”), e i germanici comandati dal generale Kesselring, insufficienti, per numeri e mezzi, onde presidiare e rendere invulnerabile l’intero territorio. Arrivarono, invasori o liberatori, dal mare. Per gli americani, in fin dei conti nati da un 1492 di colombiana memoria e da una non limpidissima conduzione dei rapporti con i nativi, è stato come un ripercorrere, nel rimodulare numeri della storia, la logica di navi che prendono terra: in vaga emulazione del 1492, il 1943 è l’epoca di conquistadores con la jeep e le navi liberty, quelle a chiglia chiatta e sponde ribaltabili cui Mussolini non aveva pensato, allorquando credeva di inchiodare sul “bagnasciuga” (che tale non è, semmai “battigia”) chi giungeva dal Canale di Sicilia. Liberati o invasi, i Siciliani gioirono o vollero gioire, tra il fascino irradiato dai nuovi venuti e il timore che incutevano. Come gli indigeni, secoli addietro. Chewing-gum e cioccolato uti cocci di vetro. I difensori furono ingannati da un’attenta azione di intelligence ma anche segnati da una colpevole inadeguatezza nel cogliere le evoluzioni tecniche. Nell’estate del 1937, al termine di grandi manovre proprio in Sicilia, Mussolini sostenne: “Qui non sbarcherà mai nessuno, nemmeno un soldato”. Non andò così, ovvio. Sbarcarono, eccome! Avevano con loro un manualetto un po’ ingenuo e alquanto razzista, con le cautele da adottare incontrando i Siciliani. Precauzioni vane e indottrinamenti inutili, poiché circa il 15% degli invasori era costituito da statunitensi oriundi siciliani. E come fossero la Sicilia e i Siciliani non era un mistero neanche a chi, con scelta che sarebbe superficiale affidare alla esimente frase “il fine giustifica i mezzi”, aveva avuto tutte le spiegazioni del caso – nonché tutto l’appoggio logistico intra-siculo – dalla parte peggiore della sicilianità, cioè quella di matrice mafiosa, che si presentò alla cassa, inutile precisarlo; e certi crediti si trasmettono, pure mutando genere di creditore. Se da Radio Londra il Colonnello Stevens, alquanto irridente verso il Fascismo, potette sostenere che i Siciliani salutarono negli anglo-americani i liberatori (altro che vederli come nemici invasori!), non è però frutto di una persuasione mafiosa compiuta dai Lucky Luciano o dai Vito Genovese, di una “preparazione del terreno” aliena da un sentimento comune che, vasto o meno, non può essere sottodimensionato. Invero, i Siciliani, stremati e annichiliti dai bombardamenti aerei divenuti, prima del luglio 1943, persino quotidiani, non ne potevano più. D’altronde, costretto a scegliere, il Siciliano preferiva il cinematografico americano, simbolo di quel sogno aureo oscurato via via nel ventennio, piuttosto che l’algido e incompatibile camerata teutonico. Se poi il fante John era in realtà il figlio di Turiddu, emigrato nel nuovo mondo a cercar fortuna, non si può più di tanto chiedersi come mai non potesse scaldare il cuore degli isolani l’alleanza con la Germania stretta da Roma (Roma, non Palermo).

Il bollettino di guerra italiano n. 1141, di lì a poche ore, prese atto degli eventi: “Il nemico – vi si leggeva – ha iniziato questa notte, con l’appoggio di poderose formazioni navali e con lancio di paracadutisti, l’attacco contro la Sicilia”. Non fu di buon augurio, dunque, asserire che nessuno avrebbe mai messo piede nell’isola o che, se arrivato, avrebbe trovato le coste basse come impedimento. Pur desideroso di plasmare l’Italia nel mito della latinità e dell’ellenismo, Mussolini – chissà – aveva dimenticato gli insegnamenti magico-sacrali, metafisici, occultistici tramandati dagli antichi. Patton, fin troppo rude e violento ma “utile”, dal Golfo di Gela portò gli americani nella Sicilia centrale (Enna), poi verso Ovest (Palermo), nonché verso Est, tanto da arrivare a Messina, poco dopo il Ferragosto del 1943; e vi giunse, dunque, prima di Montgomery e dei suoi britannici e canadesi che vennero inchiodati nella Piana di Catania da una forte resistenza italo-tedesca, resa emblematica dalla battaglia del Ponte Primosole. Quella che da Montgomery verrà definita “la battaglia più dura di Sicilia”, ovvero la “mattanza” che si tenne tra il fiume Simeto ed il Fossato Buttaceto alle porte di Catania. Ma come gli antichi spartani di Re Leonida, alla fine i tedeschi e gli italiani cedettero. Tanti di loro andarono incontro coscientemente alla decantata “bella morte” per difendere la loro Patria e, in diverse occasioni, furono onorati anche dal nemico. Un atto di eroismo è stato ricordato di recente, il 31 luglio 2020. Infatti, ad Augusta, alla presenza del Sindaco, di autorità civili e militari, di dirigenti scolastici, si è svolta, con la scopertura di una apposita epigrafe, la celebrazione del 77° anniversario dei fatti d’armi che videro protagonista il Tenente Cesare Artoni, medaglia d’argento al valore militare, e la sua pattuglia di arditi nuotatori. Presente anche il “nemico”, rappresentato dal generale americano Davis Gordon, vicesegretario generale della Nato per la divisione degli investimenti della difesa.

A Feltre, in occasione dell’incontro tra Hitler e Mussolini del 19 luglio, si parlò dei primi giorni di guerra a domicilio; poi l’attenzione venne calamitata anche dalla notizia del primo bombardamento patito da Roma, quartiere San Lorenzo (ma non c’era la papale contraerea dell’Urbe?). Due eventi, lo sbarco in Sicilia e l’evidenza della fragilità persino della difesa della capitale, che misero al tappeto il regime fascista, con l’epilogo del 25 luglio.

La campagna di Sicilia, pur vittoriosa per gli Alleati, non portò al raggiungimento di un obiettivo strategico, come l’annientamento dei difensori dislocati nell’isola. Infatti, prima che avvenne l’occupazione di Messina, le locali forze dell’Asse – guidate dal ferreo Hube – riuscirono a varcare lo Stretto (Operazione Lehrgang) e a costituire risorse da impiegare nella creazione di fronti e resistenze lungo la Penisola, da contrapporre all’avanzata che gli anglo-americani ipotizzarono dopo lo sbarco in Calabria (Operazione Baytown). Per la Sicilia, separata dal resto d’Italia e in procinto persino di diventare un vero e proprio territorio statunitense, si concretizzò una storia autonoma rispetto alle sorti patrie; basti dire che nell’isola la guerra finì nell’estate del 1943, mentre altrove, per quasi altri due anni, gli orrori si palesarono in ulteriori modalità.

Dallo sbarco degli Alleati, per la Sicilia si aprì una stagione di taciute oscurità, strani equilibri e prodromi di trattative indicibili.

Epilogo

Il 3 settembre 1943, con l’armistizio di Cassibile, frazione di Siracusa, in contrada Santa Teresa Longarini, l’Italia proclamò la resa incondizionata agli Alleati. La stipula rimase segreta fino all’8 settembre 1943, nel rispetto di una clausola del patto che prevedeva l’entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico. Presente, tra gli altri, tale Vito Guarrasi, stretto amico del Generale Giuseppe Castellano, l’ufficiale che firmò la resa per l’Italia. Chi sia l’alcamese Guarrasi è forse troppo presto per dirlo – e la sua umana uscita di scena ha frustrato il completamento della figura – ma ciascuno può edificarsi una idea personale, pensando a un uomo che ha fatto capolino in varie vicende particolari della storia italiana. A proposito del suo “zampino” nell’armistizio e nelle vicende anglo-americane susseguitesi dopo lo sbarco del 10 luglio 1943, Max Corvo, l’augustano classe 1920 che, poco più che ventenne, diresse l’ufficio italiano dell’Office of Strategic Services (O.S.S.), il servizio segreto americano, durante la Campagna d’Italia (1943-1945), scrisse: “Ho discusso i dettagli dei negoziati con Vito Guarrasi, che vidi durante i miei viaggi in Italia sia durante che dopo la guerra”. Testimonianza, questa, inclusa anche nel saggio del Generale Castellano, “Come firmai l’armistizio di Cassibile” (Mondadori, Milano, 1945). Su certi incontri di Castellano in Sicilia, specie nel novembre del 1944, ci sarebbe da approfondire. Chi è così ingenuo da pensare che la parola trattativa sia associabile agli ultimi anni del secolo scorso?

Era un uomo intelligente… e chiacchierato”. Così si definisce Vito Guarrasi dettando il suo necrologio in un’intervista esclusiva. Per mezzo secolo la stampa lo ha definito il ritratto stesso del potere. Siamo alla cronaca recente, alle testimonianze in processi di mafia, alle accuse dei pentiti. Indecifrabili ma comprensibilissime dinamiche italo-siciliane (si permetta l’ossimoro). Che fanno riflettere e tanto, naturalmente; pure in ordine a quanto generatosi da quell’estate del ’43.

Mori il 31 luglio 1999. E che dire anche di lui, uomo reso senza respiro come i tanti morti tra fanti, civili, uomini, donne, sanguinari, poveri-cristi, invasori e invasi? Quel che, per pietà laica o religiosa, la morte ispira … . Riposa in pace. Amen.

Andrea Vaccaro e Camillo Beccalli

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