IL CAFFE’ PEDAGOGICO

Pensiero laterale: don Andrea Gallo, un prete di strada

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È tempo di bilanci e buoni propositi, ma il primo dell’anno è anche una festività religiosa per i cattolici.

Si respira ancora l’eco dell’appena trascorso Natale e, in questo clima di spiritualità, in “Pensiero laterale” tratteremo la figura di un grande quanto atipico sacerdote, don Andrea Gallo, per ricordarne l’immenso patrimonio ereditario, in termini di umanità e carità cristiana.

Nato a Campo Ligure nel 1928, don Gallo (il suo nome di battesimo era sempre sottinteso), di fede cattolica e ideali comunisti, anarco-cristiani e pacifisti, amava definirsi “prete di strada”. Fu fondatore e animatore della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova.

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«I miei vangeli non sono quattro. - sosteneva - Noi seguiamo da anni e anni il vangelo secondo Fabrizio De André, un cammino cioè in direzione ostinata e contraria. E possiamo confermarlo, constatarlo: dai diamanti non nasce niente, dal letame sbocciano i fiori».

Sempre dalla parte degli “ultimi”, la copertina di uno dei suoi tanti libri (“Non uccidete il futuro dei giovani”) lo ritrae in campo rosso con il basco, il pugno alzato, la bandiera della pace: un Che Guevara anziano e con la tonaca. Al G8 di Genova, nel 2001, si spese moltissimo. Incontrò Manu Chao per organizzare il concerto del musicista-icona dell’epoca, vide l’attacco immotivato dei carabinieri al corteo dei Disobbedienti di Casarini: “Una vera imboscata”, dirà a caldo pochi giorni dopo, e “Carlo muore” (Carlo Giuliani, ndr). Anche lui, di fronte alla “caccia all’uomo” in piazza e “al vergognoso termine della Diaz”, prova in quei giorni lo spiazzamento di chi ha “tutt’ora tanti amici nelle forze dell’ordine”.

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“L’indifferenza è l’ottavo vizio capitaleera una delle sue frasi celebri, o ancora: “Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono. Accoglienza vuol dire costruire dei ponti e non dei muri. Potremmo andare avanti per molto… pensare tuttavia di racchiudere in un solo articolo il pensiero di don Gallo sarebbe ingiusto, oltre che riduttivo.

Ci limiteremo a riportare la sempre attuale lettera di addio che il prete di strada scrisse per il suo grande amico Fabrizio De André quando apprese la notizia della morte del grande poeta, la cui biografia sarà prossimamente sul grande schermo (“Fabrizio De André , Principe libero” , il 23 e 24 gennaio nelle sale cinematografiche):

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Genova, 14 gennaio 1999

«Caro Faber, da tanti anni canto con te, per dare la voce agli ultimi, ai vinti, ai fragili, ai perdenti. Canto con te e con tanti ragazzi in Comunità.

Quanti Geordieo Miché, Marinella o Bocca di Rosa vivono accanto a me, nella mia città di mare che è anche la tua. Anch’io ogni giorno, come prete, “verso il vino e spezzo il pane per chi ha sete e fame. Tu Faber, mi hai insegnato a distribuirlo, non solo tra le mura del Tempio, ma per le strade, nei vicoli più oscuri, nell’esclusione.

E ho scoperto con te, camminando in via del Campo, che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.

La tua morte ci ha migliorati, Faber, come sa fare l’intelligenza. Abbiamo riscoperto tutta la tua antologia dell’Amore: una profonda inquietudine dello spirito che coincide con l’aspirazione alla libertà. Ma soprattutto il tuo ricordo e le tue canzoni ci stimolano ad andare avanti.

Caro Faber, tu non ci sei più, ma restano i migranti, gli emarginati, i pregiudizi, i diversi. Restano l’ignoranza, l’arroganza, il potere, l’indifferenza…

La Comunità di San Benedetto ha aperto una porta nella città di Genova, e già nel 1971 ascoltavamo il tuo album “Tutti morimmo a stento”. E in comunità bussano tanti personaggi derelitti, abbandonati, puttane, tossicomani, impiccati, aspiranti suicidi, traviati, adolescenti, bimbi impazziti per la guerra e l’esplosione atomica.

Il tuo album ci lasciò una traccia indelebile. In quel tuo racconto crudo e dolente, che era ed è la nostra vita quotidiana nella comunità, abbiamo intravisto una tenue parola di speranza, perché, come dicevi nella canzone, dalla solitudine può sorgere l’amore come a ogni inverno segue una primavera.

È vero, caro Faber, loro, gli esclusi, i loro occhi troppo belli, sappiano essere belli anche ai nostri occhi. A noi, alla nostra comunità, che di quel mondo siamo e ci sentiamo parte. Ti lasciamo cantando la “Storia di un impiegato”, e la “Canzone del maggio”, che ci sembra sempre tanto attuale.

Ti sentiamo così vicino e così stretto a noi quando, con i tuoi versi, dici: “E se credete ora che tutto sia come prima, perché avete votato la sicurezza e la disciplina, convinti di allontanare la paura di cambiare, verremo ancora alle vostre porte e grideremo ancora più forte. Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”. Caro Faber, tu parli all’uomo amando l’uomo, perché stringi la mano al cuore e risvegli il dubbio che Dio esiste. Grazie».

Lucia D’Amore

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