IL DOMINIO DELLA TECNICA

Dal marxismo ai nuovi comunitaristi settari

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L’uomo e la tecnica hanno sempre convissuto e la stessa storia umana non sarebbe potuta essere quella che oggi conosciamo se avessimo fatto a meno di produrre manufatti in grado di sollevarci dalla condizione bestiale e conoscere un progresso che attualmente stiamo mettendo in dubbio. Il mondo è stato sempre abitato dalle tecnologie, vi erano cioè almeno in potenza attrezzature che attendevano solo l’intervento dell’uomo per potersi tramutare in manufatti pronti all’uso, e all’abuso, per cambiare il corso della storia per molte popolazioni. Secondo la fortunata definizione coniata da Janna Quiney Anderson, la generazione AO (always-on) è cosa ormai assodata, consuetudine affermata, interagire con le tecnologie tramite ICT, ovvero altre tecnologie. Cosa è allora cambiato oggi che ci troviamo di fronte a un’umanità atterrita, impaurita, dubbiosa circa le conseguenze di un’evoluzione troppo rapida? Secondo le parole di Luciano Floridi oggi sono le interfacce a dominare tutte le tecnologie digitali e, come ricordava Umberto Galimberti in Psiche e techne, «siamo tutti persuasi di abitare l’età della tecnica, di cui godiamo i benefici in termini di beni e spazi di libertà. Siamo più liberi degli uomini primitivi perché abbiamo più campi di gioco in cui inserirci» L’elemento inquietante che accumuna tutte le paure e le incognite sul tempo presente dell’umanità è rappresentato, collegandomi sempre a Galimberti, al concetto che la tecnica funziona e basta, e dunque non si fa domande di ordine etico e di senso ultimo delle cose.

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Ciò che allora caratterizza la nostra epoca è la forte accelerazione che le ultime innovazioni tecnologiche, in particolar modo nel mondo della comunicazione e dell’informazione, hanno conosciuto, e della relativa influenza che esse hanno avuto e imposto alle dinamiche di produzione dei beni e delle relazioni. Il soggetto operante nell’infosfera, una zona ormai comprensiva sia di spazi fisici che non, è sempre più un soggetto scevro da sanzioni di ordine etico e da problemi di coscienza, condizionato silentemente da un regime la cui la sola logica è quella dell’accelerazione. Se la tecnica non ha bisogno di senso per manifestarsi, l’unico modo che le rimane allora sarà il segno, la trasformazione marxista da mezzo a fine che tutto subordina a sé e che porta la tecnica a condurre il gioco e a condizionare l’ambiente in cui l’uomo vive. La nuova ontologia della tecnica di basa sull’utilitarismo e sulla mobilità continua di un soggetto impegnato quotidianamente a compiere rituali che ricalcano l’imperativo kantiano del dovere per il dovere, per cui si devono fare determinate cose (azioni) anche se non si conoscono affatto i fini per cui si fanno. Passata la prima fase dell’indigenza alimentare e fisiologica, ad oggi rimane un’altra forma di indigenza slegata da forme di bisogno per stare in vita, piuttosto ancorate a riempire altri vuoti: sentimentali, di status, di noia.

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Lo spazio del digitale è diventato un ambito impossibile da escludere da un contesto di significanti caratterizzato da una moltiplicazione infinita dei riferimenti immaginari e immaginifici. Ripensare il luogo dove avvengono le relazioni del nostro tempo allora significa affrontare un contesto nel quale è impossibile vivere senza che vi sia una connessione internet, la vera infrastruttura della nostra esistenza, così profondamente inserita nella nostra società che non ha forse più senso farsi domande di stampo etico inerenti per esempio l’impatto delle tecnologie con le nostre vite. Inedite fino a pochi decenni fa, le modalità di relazione basate sulle piattaforme di condivisione sono diventate la norma grazie all’attività predatoria di quelli che Jonathan Taplin ha chiamato “i nuovi sovrani del nostro tempo”, ovvero i figli di coloro che negli Anni ’60 si definivano i nuovi comunitaristi, frequentatori delle più note comuni negli Stati Uniti e avventisti di un’era dove gli strumenti tecnologici potessero creare un’identità libera dai freni della società. Per fare ciò vi era bisogno, sempre citando il bel libro di Taplin che riporta a sua volta le “profezie” del filosofo Richard Bukminster Fuller, non di un semplice ideatore e progettista, ma di un artista-scienziato in grado di operare grazie alla tecnica «il passaggio […] di un individuo dotato dei più potenti e moderni mezzi tecnologici da una dimensione predatoria a uno stile di vita avanzato e adeguato per l’intero genere umano». Peccato però che poi le cose siano andate diversamente con buona pace di Tim Berners-Lee.

Andrea Alessandrino

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