IL GESTO ETICO DI ALESSANDRO MAGNO, NELL’ANALISI DI SIMONE WEIL -II^ PARTE

L’opinione del filosofo

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cms_25350/1v.jpgAlessandro fa affidamento sia sul suo orgoglio di comandante, che ha il dovere di essere più virtuoso dei soldati, sia sugli sguardi dei suoi subordinati, capaci di incutere terrore molto più dello sguardo dei superiori, perché sono l’essenza di un giudizio nudo, non investito di potere. Ora, non ci sfugge che questo momento di quiete, che è la cerimonia, è il momento decisivo dell’azione. L’azione è il rifiuto di ogni gesto istintivo, quell’immobilità scultorea e quella meditazione silenziosa, ottenute attraverso il dominio esclusivo dei muscoli.

Ma ora Alessandro è solo e nessuno lo guarda per sostenerlo. Tutto accade nell’anima di Alessandro. Nessuno gli consiglia cosa fare, è solo davanti ai suoi uomini e a se stesso: solo con la propria etica, con la sua personale visione del mondo, di fronte alla sofferenza degli altri. Alessandro è solo e il suo esercito è solo un mito - il mito dell’umanità in lui -, e deve scegliere tra essere un animale o essere un uomo.

Avere sete di per sé è poco: tuttavia, è importante rifiutarsi di soddisfare la sete per non separarsi dall’umanità. “Ogni santo - continua Simone - ha versato acqua, ogni santo ha rifiutato ogni felicità che lo separerebbe dalle sofferenze degli uomini”..
Se Alessandro non avesse avuto sete, o se avesse saputo che l’acqua era avvelenata, l’azione non sarebbe stata bella; lo stesso vale se ha agito per dare coraggio ai suoi soldati o se una legge, anche senza sanzioni, vieta al comandante di bere se l’esercito ha sete. Ma se l’azione bella è spettacolo e non azione, è necessario comprendere quale sia la sua relazione con l’azione; e, se è un mito, quanto è vero il mito.

Va notato che, nel mito, Alessandro, dopo il suo gesto, si ricompone, così come i soldati, che erano al cospetto di Alessandro. Sia la paura che il rispetto partecipano al gesto dei soldati. In Alessandro non c’è paura, non c’è rispetto, ma ciò che il buon senso chiama, appunto, rispetto umano. La moderazione che esercita su se stesso non è affatto politica, quindi è al centro dell’azione, anche se il ruolo dei soldati non è meno bello.

Ora, non sfugge che questo momento di quiete, che è la cerimonia, è il momento decisivo dell’azione. L’azione è il rifiuto di ogni gesto istintivo, quell’immobilità scultorea e quella meditazione silenziosa, ottenute attraverso il dominio esclusivo dei muscoli. Ma ora Alessandro è solo e nessuno lo guarda per sostenerlo. È solo e assetato. Sa che altri uomini nello stesso deserto hanno sete, ma non li vede. Intravede l’acqua, si precipita verso di essa e la beve: un gesto di cui non è consapevole.

Ma Alessandro non beve, altrimenti non sarebbe Alessandro. Alessandro vede l’acqua, fa un passo verso di essa; improvvisamente si irrigidisce, riflette. Un tale pensiero non è incerto, ma dubbio, dubbio sul valore del proprio gesto. Se avesse bevuto quando era davanti al suo esercito, la sua sazietà lo avrebbe separato dai suoi soldati e i soldati, dal canto loro, sarebbero stati invidiosi di Alessandro: l’unità si sarebbe spezzata e non ci sarebbe stata bellezza.

Ma anche questo è un mito, poiché tutto accade nell’anima di Alessandro: si mette infatti in gioco come uomo. Il bello è sradicare la propria individualità, cioè la propria animalità, affermare la propria umanità, cioè essere parte di Dio. Le cose buone sono possibili solo se pensiamo a Dio, cioè all’umanità, allo spirito umano, che combatte in noi ed è presente in ogni nostra vittoria: “Vieni nel mio cuore e nella mia anima - dice Pascal, invocando Gesù Cristo - per sostenere le mie sofferenze e continuare a sostenere in me ciò che ti resta per soffrire della tua passione”. Grazie alla presenza continua dello Spirito in noi, ogni nostro gesto è una cerimonia: è proprio questo che rende bello ciò che è giusto.

cms_25350/2v.jpgNel momento in cui agiamo, cioè quando siamo liberi ed uguali a Dio, il bello e il buono sono uno, compiamo una vera azione morale. L’azione morale è l’affermazione dell’uomo come uomo. Qui troviamo l’imperativo categorico di Kant, secondo il quale il bene è regolato da un concetto, ma questo concetto è il simbolo del percorso di distacco dalle cose attuato dallo spirito, un percorso che è il bene stesso. Come la legge morale kantiana esige l’affermazione dell’uomo in se stesso, spogliato di ogni determinazione, così come il bene è necessario e non utile, il bello è ciò che è sempre perfetto e compiuto.

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“Ciò che è buono, scrive Simone Weil, è quel movimento con cui ci strappiamo da noi stessi come individui, come animali, per affermarci come uomini, partecipi di Dio”, come atto di rinuncia che, diminuendo, dia accesso all’universale; il bene incontra il bello, non come alternativa e scelta tra i possibili, ma si compenetrano in un’unità che ne assorbe e consuma le caratteristiche peculiari.

cms_25350/4v.jpgTutto è sacrificio, ma implica un ardore che lascia vivo l’essenziale. In questa trasparenza, che lascia in secondo piano ciò che non è essenziale e porta in piena luce ciò che è essenziale, si compie l’atto estetico. Prima del suo culmine, l’atto estetico abbraccia il cammino verso la bellezza. Il buono diventa bello, ma il bello è giusto. Non c’è bellezza che nell’atto di morire e svuotarsi, spezzarsi e poi resuscitare.

Ma leggiamo Simone Weil: “Da un lato, quindi, il bello ci invita ad essere liberi (…), ma, dall’altro, osserviamo il bello attraverso l’azione di separarci dall’oggetto. Rifiutiamo l’oggetto e questo ci insegna a rifiutare tutto l’oggetto, a rifiutare l’oggetto che è in noi, cioè le nostre passioni, cioè i nostri sentimenti, i nostri pensieri. (...) Ci avviciniamo sempre a Dio rifiutando e lasciando dietro di noi la materia che abbiamo plasmato in questo movimento di rifiuto, perfetto perché ha ricevuto la forma dello spirito umano, immobile e simbolo del movimento. Questo rifiuto fa della materia l’oggetto, in altre parole: la rende bella. Infatti, vedere qualcosa di così bello è vederlo come immutabile ed eterno, invece di vedere l’essenza secondo l’esistenza. Ma il bello è il rifiuto dell’essenza stessa e l’affermazione che l’essenza è determinata da qualcosa di superiore: la libertà”.

cms_25350/5v.jpgÈ questo il senso del sacrificio estetico che affonda le sue radici nell’atto sacro e nella dialettica della perdita e della rinascita, dell’abbandono e del ritorno. Questa sintesi tra esistenza ed essenza, in Simone Weil, avviene in Dio, che dissolve antitesi e opposizioni affinché anche il bello e il buono, apparentemente separati e distinti, ascendendo alla figura dell’Uno, diventino uno.

L’uomo vive in tre modi: pensare, contemplare, agire. Credendo che qualcosa nell’universo corrisponda a queste tre modalità, si formano le idee di verità, bellezza e bene. Se consideriamo, in particolare, il bello e il buono - il bello e il buono - possiamo pensare che, essendo uno degli uomini, il bello e il buono non possono essere completamente separati. In particolare, il bello e il buono, nella nostra breve riflessione, fanno luce sul concetto di "bella azione".

Per capire in cosa consiste la bellezza dell’azione nella sua etica abbiamo incontrato Alessandro, il suo gesto visto attraverso gli occhi di Simone Weil. Davanti all’orrore della guerra cui assistiamo attoniti e dolenti, ci domandiamo quando e se, in una guerra di aggressione, si possa parlare ancora di bellezza e di etica, le uniche, con la verità e libertà, che rendono umani gli uomini e la vita degna di essere vissuta.

Fine

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I^Parte:

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Gabriella Bianco

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