IL PESO ABNORME DEL PRESENTE
Il present continous a cui ci costringe la stringente morsa del virus, porta alla riflessione se sia giusto o meno pensare la nostra epoca come in ottica di presentismo o sobbarcarci il carico morale di presenziare sì al nostro tempo ma con la schiena al passato e il volto e lo sguardo a un futuro più roseo. Del futuro per ora non c’è nessuna traccia e il passato è malinconia di un tempo logico costruito su basi solide e certezze oggi naufragate miseramente. Non ci resta allora che abbracciare il dispotismo del presente e mettere la parola fine alla tradizione e alle catene nostalgiche della memoria mentre cadiamo nell’incapacità di ricordare gli sbagli e i pregi del passato per fare tesoro e sperimentare nuove forme identitarie maggiormente atte ad affrontare eventi dolorosi. Il passato però non è una terra straniera ma è sempre più prossimo grazie ai continui flashback di una memoria che non vuole arrendersi e continua a declinare fatti del passato in fattoidi del presente. Il dispotismo dei fattoidi prefigura una società che subisce in continuazione attacchi alle poche certezze acquisite, individui sempre più supini a subire falsità ideologiche e pregiudizi di ogni sorta, convinti che una società costruita sulla vox populi sia sempre meglio della messa alla prova della verità.
L’iperbolico del racconto postmoderno invade allora compiacente e compiaciuto attraverso gli schermi del racconto per immagini di un’epoca he di storico ha ormai ben poco, sintesi di un tempo sofferente e della crisi di uno spazio pubblico concentrato e sintetico su piattaforme in cui tutto e il contrario di tutto sono la chiave di volta per l’ermeneutica del presente e il racconto distopico del futuro. Ecco nuovamente il ricorso a chiavi interpretative e deduttive appartenenti al passato per spiegare gli eventi contemporanei: segni, tracce e simboli declinate attraverso le logiche del consumo e della cannibalizzazione di ogni ambito e scenario che si trasformano in un assordante rumore virtuale, di tastiere, schermi, solitudini onnivore di immagini e informazioni pronte a sedimentarsi in singole narrazioni di esperienze casalinghe.
Torniamo indietro a passo di gambero ad abitare nuovamente, testardamente, obbligatoriamente quelli ambiti a cui pensavamo di non dover far ricorso per necessità lavorativa, affettiva, quotidiana. Lo spazio ibrido del web diventa la calda dimora in cui celebrare il linguaggio intimista, la biografia delle piccole cose, l’esercizio di una memoria smarrita di un affetto e di un carico umano e sentimentale con cui fare i conti per fermare la paura.
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