IL RAPIMENTO MORO (ottava parte)

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Italia nel caos: il delicato equilibrio politico a fatica ritrovato, grazie proprio all’azione di Moro, rischia di disperdersi in mille braci su cui fin troppe bocche affamate di potere vorrebbero soffiare. Tra disattenzioni e depistaggi, perquisizioni annunciate e arresti sospetti, nessuno sembra avere un’idea di dove possa trovarsi lo statista. Unica certezza, le B.R.: sono state loro, quindi la sinistra extraparlamentare. Eppure Aldo Moro non lasciò mai Roma, anzi, venne addirittura spostato. Il primo posto dove venne tenuto prigioniero sembra fosse a poca distanza da via Fani, dove avvenne il rapimento, precisamente in viale delle Medaglie d’oro. Questa rivelazione è giunta dopo l’audizione di Mario Fabbri, avvenuta il 29 giugno 2016, presso la Commissione di inchiesta parlamentare incaricata di svolgere l’ennesima indagine in merito al rapimento di 40 anni prima.

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Mario Fabbri era un agente dell’ufficio politico della Questura passato al Sisde, il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica. Fu lui a essere incaricato dei rilievi sulla Fiat 132 rinvenuta dopo il sequestro, assieme agli agenti della Polizia Cinofila. Quando il cane utilizzato per le indagini annusò la coperta trovata nell’automobile, percorse pochi metri e si fermò davanti ad alcune palazzine in viale delle Medaglie d’oro. E a quel punto gli agenti che fecero? Stavano cercando tracce di un sequestrato eccellente, dovevano scoprire dove fosse detenuto, e quando un cane segugio li conduce dove c’è un nucleo di abitazioni loro voltano le spalle e se ne vanno. Sarebbe bastato pochissimo, qualche accertamento sugli inquilini, per scoprire che in quelle case c’era una persona in contatto con il gruppo terroristico tedesco RAF; e poi solidali di Autonomia Romana, e chissà chi altro ancora. Eppure non vennero svolte indagini, nulla. Quindi non si sa se lì ci fosse anche un covo per detenere l’ostaggio, ma certo si sarebbero potuti trovare indizi. Vennero invece tenuti in considerazione altri indizi, come il comunicato n°7, in cui si dichiarava che Moro era morto, e il suo corpo gettato nel lago della Duchessa, tra Lazio ed Abruzzo. Nonostante lo scetticismo degli inquirenti, dovuto al linguaggio usato e alle tecniche di stampa, furono inviati personale e mezzi per effettuare le ricerche. Nonostante la neve intorno al lago fosse intatta e compatta, si procedette alle ricerche, interrotte solamente quando venne inviato un nuovo comunicato originale dalle B.R., contenente un ultimatum al Governo, allegato a una foto dello statista con in mano una copia del quotidiano La Repubblica del 19 aprile. E il falso comunicato, che scopo aveva? Innanzitutto venne scoperto che a scriverlo era stato un falsario, legato a vari ambienti criminali, tra cui anche la Banda della Magliana: fu lo stesso falsario a confessarlo, parlando con un informatore dei Carabinieri, il quale riferì la notizia, a cui stranamente non fecero seguito indagini. Chichiarelli, questo il cognome del falsario, venne ucciso in circostanze mai chiarite nel 1984. Tornando al senso del falso comunicato, i brigatisti pensarono che fosse un parto del potere, un segnale che allo Stato non interessavano trattative e dava Moro già per morto. Questa ipotesi venne suggerita da un ex brigatista, Enrico Fenzi, ai magistrati della Corte di Assise di Roma durante un dibattimento processuale. È evidente, pertanto, che il falso comunicato un effetto lo ottenne; il problema è che non si seppe mai chi diede l’ordine di scriverlo.

cms_7573/3.jpgNel frattempo però venne scoperto anche un covo delle BR, al civico 96 di via Gradoli, a Roma. Non fu una scoperta dovuta a indagini, anzi, furono i Vigili del Fuoco a trovarlo, facendovi irruzione per interrompere una perdita d’acqua che stava allagando l’appartamento sottostante. Una perdita curiosa, causata dal rubinetto della doccia bloccato casualmente da una scopa, che lo teneva con il getto puntato contro il muro. In quell’appartamento viveva Mario Moretti, la mente del sequestro, che ebbe notizia della scoperta del covo direttamente dalla stampa, fatto che gli consentì di non rientrare nella casa affittata con il finto nome di Mario Borghi. Tra quelle mura venne ritrovata anche la targa originale della Fiat 128 usata durante il sequestro. Questo accadeva il 19 aprile 1978; ma quel nome, Gradoli, venne segnalato agli investigatori anche giorni prima, esattamente il 4 aprile: fu un giovane Romano Prodi, che nel novembre dello stesso anno diverrà Ministro dell’Industria per il Governo Andreotti, a consegnare il nominativo a Benigno Zaccagnini, della Democrazia Cristiana. Secondo Prodi, a rivelare il nome di Gradoli sarebbe stata una entità durante una seduta spiritica, e nessuno trovò da ridire, anzi, vennero organizzate perlustrazioni. Nel porto delle nebbie, a volte, ci sono troppe sirene…

Paolo Varese

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