IL RAPIMENTO MORO (Nona parte)

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16 marzo 1978. Aldo Moro rapito. Nel lungo periodo intercorso tra il sequestro e il ritrovamento del corpo dello statista democristiano, si verificarono una serie di fatti che, visti a distanza di tempo, assumono contorni inquietanti, dando l’idea di come in realtà ci fossero due anime coinvolte nella vicenda: una era quella popolare, la parte più vera interessata affinché non si verificasse una tragedia, e l’altra era quella nera della politica distorta, degli interessi particolari, del “fine che giustifica i mezzi”. Tra depistaggi e dimenticanze, tra servizi segreti e criminalità organizzata, Moro venne tenuto prigioniero mentre intorno a lui le acque si intorbidivano. Sappiamo ora che non tutte le testimonianze relative al rapimento vennero prese in esame, così come sappiamo che i covi dei terroristi non vennero trovati appositamente. Sappiamo che c’erano una serie di infiltrazioni, a tutti i livelli, che impedivano di seguire le giuste tracce. Dal 16 marzo al 9 maggio, 55 giorni di buio istituzionale, - non ci sono altri termini da poter utilizzare! - di una partita che aveva come posta il destino dell’Italia.

Dalle testimonianze rese dai brigatisti durante i processi che seguirono, si arrivò alla conclusione che l’appartamento in cui venne tenuto prigioniero Moro si trovava in via Montalcini, al civico 8, nel quartiere Portuense, vicino a via della Magliana. Eppure in quel periodo si pensò, anche grazie a una dichiarazione di Romano Prodi, che il covo dei criminali potesse trovarsi in via Gradoli. Prodi disse che quel nome era uscito fuori durante una seduta spiritica, e le forze dell’ordine si recarono nel paese di Gradoli, nel viterbese, dove non trovarono nulla. Fu la moglie dello statista a trovare una via con quel nome sullo stradario di Roma: i potenti mezzi della polizia e dei carabinieri non pensarono a questo incredibile escamotage, eppure l’appartamento in quella via era usato da Mario Moretti come abitazione. Da lì ogni giorno lui usciva per poi farvi ritorno, ma nessuno lo seguì mai, forse speravano di coglierlo in fallo mentre apriva la porta, chissà.

cms_7789/2.jpgIntanto Moro scriveva lettere, appelli accorati a prendersi cura di lui, missive rivolte agli amici, ai colleghi di partito. 86 lettere, 86 grida di aiuto e di accusa, da cui nessuno si lasciò impietosire. Si scelse la linea della fermezza: si è sempre forti quando gli ostaggi sono gli altri. Scrisse anche al Papa, a Paolo VI, che celebrò poi la messa in San Giovanni in Laterano, una messa senza salma, poiché la famiglia non si volle prestare ad una ulteriore umiliazione, dopo la latitanza vaticana durante il periodo del sequestro. Non tutte le lettere furono recapitate, alcune vennero ritrovate in seguito, ma ciò che traspare è l’intuizione di fondo di Aldo Moro, nel comprendere che la vicenda era gestita indirettamente da altre potenze. In una lettera chiede se nel tener duro fossero implicate indicazioni tedesche e americane, mentre in un’altra cita testualmente alcuni politici del suo stesso partito, come Cossiga, ricordandogli che il suo sangue sarebbe ricaduto su di loro. Dopo, per cercare di smacchiarsi l’abito dalle accuse rivolte a loro sia da Moro che dalla popolazione, alcuni politici cercheranno di far credere a lettere scritte sotto minaccia, dietro tortura; ma lo stesso Cossiga, che inizialmente coinvolse nello studio delle lettere anche un famoso criminologo, anni dopo ammetterà che il discorso in cui Giulio Andreotti, all’epoca capo del Governo, ipotizzava lettere non moralmente autentiche, lo aveva scritto lui, per scardinare la sfiducia popolare caduta sul partito.

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Indro Montanelli andò ancora oltre: molto critico nei confronti di Moro, affermò che un uomo dello Stato non poteva arrivare a una trattativa con dei terroristi che avevano lasciato 5 cadaveri sull’asfalto, cinque corpi di servitori dello Stato. Moro venne condannato sia da vivo, lasciandolo nelle mani dei terroristi, che da morto, quando nessuno cercò di andare oltre (o meglio, nessuno con voce abbastanza potente: chi nutriva dubbi e sospetti venne messo in minoranza, tacitato). Il fronte del no alle trattative e il fronte del sì si scontrarono, ma il finale era ovvio, e si arrivò al giorno del 9 maggio 1978. Lo statista venne svegliato alle 6:00 del mattino, gli venne detto che era stato graziato, venne infilato in una cesta di vimini e poi portato nel garage di via Montalcini, dove fu fatto entrare nel portabagagli di una Renault 4 rossa. Coperto con un lenzuolo rosso. Moretti, che attualmente gode di un regime di semilibertà, sparò contro quel corpo inerme prima con una pistola, poi con una mitragliatrice Skorpion. Nessuno, in quel martedì, sentì sparare, nessuno in quel palazzo si accorse di nulla e, se davvero accadde quanto dichiarato dai terroristi, nessuno vide quella automobile uscire dal garage, per dirigersi verso il centro di Roma, evitando tutti i controlli, le pattuglie dislocate sul territorio. La Renault venne lasciata in via Caetani, dietro la sede del PCI e vicino alla sede della D.C., ma nessuno si accorse di nulla. Nel porto delle nebbie è difficile trovare la rotta, ma a volte ci sono troppe sirene per procedere sereni.

Paolo Varese

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