IL SAPERE IN FRANTUMI: CONDIVIDERE E’ MEGLIO CHE LEGGERE

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cms_28963/1.jpgRimaniamo sulla superficie, non approfondiamo ciò che si cela sotto la crosta delle cose. Per Heidegger il tempo è il tempo dell’esistenza, una modalità dell’esserci dell’essere, il modo in cui scegliamo di esserci nel mondo. Un tempo considerato buono (Kairos), oggi il tempo è tiranno, una risorsa sempre più preziosa in una realtà che ci vede sempre sotto il giogo di una corsa sfrenata dettata dalle forze del neoliberismo. Sui social, come nella vita, diventa più semplice condividere che approfondire, fidarsi delle prime ed estemporanee impressioni senza dedicare il necessario approfondimento a ciò che l’altro può averci voluto dire attraverso una semplice espressione. L’era del consumismo forsennato, della performance compulsiva e ad oltranza, porta l’utente a semplificarsi la vita passata sulle piattaforme per non perdere neanche un istante del vortice di avvenimenti che avvengono e che si aggiornano di continuo. I social, del resto, sono stati creati proprio per non dare la possibilità di (sof)fermarsi sui contenuti, ma muoversi compulsivamente su e giù per dedicare frazioni di secondo ai soli titoli in grassetto riportati sulla propria o altrui bacheca (una tecnica ben conosciuta dal mondo del giornalismo alla ricerca di clickbait). Condividere è convivere, essere a casa propria in uno spazio collettivo organizzato per un uso comune, per incontrare gli altri.

cms_28963/2_1673062075.jpgLa diffusione dell’ideologia produttivistica, gli spazi di condivisione e di convivenza sono stati spersonalizzati e sono divenuti luoghi astratti della produzione capitalistica. La positiva radice etimologica a cui è legata la parola condividere è stata svuotata nell’universo del digitale da un’informazione spesso inutile, irrispettosa, dannosa. Una ricerca della Columbia University certifica che 6 persone su 10 non legge ciò che viene inviato loro dai propri contatti; si condivide per inerzia, su una spinta dell’inconscio di molti utenti dei social. Inviamo dati, e dunque inquiniamo la rete, non verificati in un flusso senza sosta. Leggiamo solo i titoli delle notizie e poi li condividiamo perché spinti dall’immediatezza e dall’impazienza dell’impatto che potrebbe provocare quel titolo appena condiviso sul proprio profilo o su quello dei nostri amici. Secondo l’Università del Texas che ha cercato di far luce su questo fenomeno, la condivisione delle informazioni aumenta la percezione della conoscenza degli utenti, al di là che si conosca o meno ciò di cui si sta condividendo il contenuto. Aumenta, cioè, l’auto percezione del senso di padronanza circa uno specifico contenuto e poi questa pseudo conoscenza la trasmettiamo agli altri.

cms_28963/3.jpgSiamo, chi più chi meno, affetti dalla cosiddetta sindrome di Dunning-Kruger: il semplice fatto di inviare e pubblicare certe notizie o taluni articoli fa sì che una parte della popolazione sopravvaluti le proprie capacità e competenze. Velocità, immediatezza, impazienza ci spingono a vivere in un ambiente in cui non ci si può soffermare per troppo tempo su un determinato compito perché c’è già qualcos’altro su cui focalizzare la nostra attenzione. Mancanza di tempo per elaborare le informazioni, ma soprattutto mancanza di desiderio nel trovare il tempo necessario per impegnarsi cognitivamente a leggere e analizzare un articolo. Condividere nel nuovo significato immanente al mondo social, è più divertente perché genera interazione, polemiche, like. La comunicazione è entrata in crisi, non è più comunicazione di parole ma di mera informazione, di segni funzionali che mettono in moto altri segni senza nessuna sorgente simbolica che avvalori lo stare insieme. Gli spazi social sono non luoghi in cui regna la confusione, la presenza continua del corpo, la singolarizzazione, l’annientamento dello spazio e del tempo, di connessioni di monadi in cui l’identità non è più data ma costruita labilmente sulla velocità e sul consumo.

Andrea Alessandrino

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