IL TRIONFO DELLA MORTE

Arte e Spiritualità

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La morte è stato sempre un tema spinoso, difficile.

Pascal affermava che di fronte al problema della morte l’uomo ha trovato questa soluzione: non pensarci mai.

Ma è una soluzione che non risolve nulla perché il problema è lì e prima o poi arriverà.

Il «Trionfo della morte», realizzato per la Chiesa di San Francesco e oggi conservato nel Museo Diocesano di Torino, è uno dei più importanti quadri sull’argomento del Seicento italiano.

L’opera, dipinta nel 1627 e firmata da Giovanni Battista della Rovere, offre un’occasione per meditare e riflettere sulla morte, mistero che riguarda ogni uomo per la sua ineluttabilità.

La tela presenta una grande nicchia in stile manierista circondata da bugnati rustici.

Ai lati due obelischi sopra i quali sono infilzati due crani dalle mascelle spalancate: gli obelischi riportano geroglifici di invenzione, in quanto bisognerà aspettare ben due secoli prima che la scrittura egiziana venga decifrata, ma l’Egitto è sempre stato noto come terra di maghi e culla del culto della morte. Sopra al timpano due putti rovesciano e spengono le fiaccole della vita e in mezzo a loro due braccia scheletrite tengono un grosso sasso, pronto a colpire la prossima vittima; sotto, la clessidra implacabile segna lo scorrere del tempo e ancora più in basso compare un teschio.

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Le tre Parche filano, tirano e tagliano l’ordito della vita mentre ossa precipitano dagli obelischi. All’altezza della trabeazione sporgono due scudi con nastri e iscrizioni: «bonis bona, malis mala» (Cose buone per i buoni, cose cattive per i malvagi).

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Al cuore del quadro è dipinta la ruota dell’esistenza con Adamo ed Eva che si scambiano la mela sopra un teschio: con il loro peccato la morte è entrata nel destino dell’uomo. Attorno corre l’iscrizione: «Statutum est omnibus hominibvs semel mori post hoc avtem ivdicivm», ovvero «è stato stabilito per tutti gli uomini di morire una sola volta e dopo essere giudicati».

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Al centro della ruota un putto seduto sul mondo gioca con bolle di sapone, a ricordare il carattere effimero della vita.

Nei raggi corrono diverse sentenze che culminano nell’invito ad impegnarsi per piacere a Dio invece di inseguire le vanità terrene.

In ognuno degli otto spicchi in cui è divisa la ruota c’è un teschio su tibie incrociate, ciascuno con in testa un copricapo simbolo di una posizione di potere: così l’autore suggerisce come nel giorno del giudizio non ci siano titoli o privilegi da accampare. Il Signore ti accoglierà se lo avrai riconosciuto nel povero, nell’affamato, in chi è indigente ed emarginato, in chi è sofferente e solo.

È questo uno dei criteri fondamentali di verifica della vita cristiana, sul quale Gesù ti invita a misurarti ogni giorno.

Dio non ti chiederà conto di quanto male hai commesso, ma di quanto bene hai compiuto!

La ruota poggia sulla testa di un vecchio: è il Tempo, con ai lati due figure avvolte in manti neri.

Alla base della nicchia si intravede un morto nel sarcofago, con al centro una triplice iscrizione «tria svnt vere quae me facivntflere», ovvero «tre sono gli eventi che mi fanno piangere» che esplicita tutto il peso della morte: è difficile per ciascuno sapere che si deve morire «primvm quidem dvrvm, quia scio me moritvrvm» senza però sapere quando «secvndvm vero plango, quiamoriar, et nescio qvando» e senza sapere dove si va «tertivm avtem flebo, qvia nescio vbi manebo».

Accanto al sarcofago è posta la maschera dell’inganno, sotto il quale sono ammucchiati pastorali, croci, libri, scettri, sacchi di denaro, spade, armi: tutti simboli di potere per cui l’uomo inutilmente si affanna.

A lato due iscrizioni: «memento mori» (ricordati che devi morire) e «memorare novissima» (un invito a «ricordare le ultime cose», ovvero il giudizio, l’inferno e il paradiso).

Questi sono inviti che ti possono spingere a condurre bene l’esistenza che ti è data e a non temere quello che viene dopo.

Nell’ultima sua notte terrena Gesù disse: «Io vado a preparavi un posto e poi tornerò a prendervi con me». La morte non è allora la fine di tutto ma è un andare al Padre, un tuffarsi tra le sue braccia, è il Paradiso che attende: non è da temere perché già Cristo, con la sua stessa morte, ha pagato la vita per tutti.

L’intera opera, in verità, è un invito ad impegnarsi per meritarsi il paradiso: sotto gli obelischi compare l’iscrizione «iter ad vitam», ovvero «la via per la vita eterna», che il quadro cerca di suggerire attraverso la sua ricca simbologia.

Alessio Fucile

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