Il PESO DELLE PAROLE NELL’ERA DEI SOCIAL

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Manichini a Venezia, acrilico su tela. Per gentile concessione dell’artista Maria Casalanguida.

Le parole a volte sono misteriose, ambigue. Da promessa innamorata dei verbi, ammettere che possano dire bugie è uno scacco matto alle mie emozioni. Ci si fida dei lemmi, specie quelli scritti, sembrano verità universali, chicche di saggezza; ma le parole mentono, plagiano, incantano, feriscono. Le parole restano, per me, la più grande arma nucleare. Se le sai ammaestrare puoi farne qualsiasi uso. Quindi, se vuoi far innamorare, se vuoi combattere la guerra della vita o se vuoi giocare in difesa, se vuoi costruirti una vita parallela, se vuoi cesellare ogni sentimento per convenevoli ringraziamenti e anche i saluti possono essere presentati in un certo modo.

Ecco, la scrittura già sappiamo, può aiutare le persone a farle uscire dal proprio guscio, a tirare fuori ciò che pensano e sentono, può allietare ogni momento, fungere da compagno stretto. La scrittura serve a condividere, capire, riflettere, sorridere, patire, perdersi e ritrovarsi. Ma se i vocaboli vengono finalizzati per qualcosa di puramente egoistico che peso avranno? Nell’era dei social è ancora più insidioso. Le parole servono a mascherarsi e mostrarsi, nel più buono dei casi, per quello che si vorrebbe essere? Ma che comunque non si è. Certe volte queste espressioni sembrano leccare ferite, fungere da crema lenitiva ed invece il rischio è quello di scavare buchi laddove magari erano presenti solo graffi.

E no, non dovremmo appartenere ad un mondo freddo in cui ognuno esercita disinteresse nei confronti del prossimo e lo fa passare come messaggio di sopravvivenza. Ignorare uccide, l’omertà uccide, l’indifferenza uccide.

Ben vengano i -come stai?-Tutto bene sul serio?- E non fingere l’interesse.

Torniamo a guardarci in faccia, alziamo gli occhi da una realtà illusoria. Non voltiamoci dall’altra parte. “Non è un mio problema” non può essere una giustificazione. “Vieni qui e prendiamoci un caffè, ti ascolto. “Vengo lì e ti racconto tutto”. Incontrarsi non solo fisicamente ma empaticamente.

Cosa diremo poi alle generazioni future? Cosa racconteremo? Che la guerra delle emozioni è stata persa su un social network e ognuno poteva giocare a proprio piacimento. Che le strategie erano corazze, che le parole erano forme di manipolazioni, che le immagini portavano ogni discorso fuori dal bivio?

Ecco. Cosa ci aspettiamo se poi non diamo la giusta attenzione e chi lo farà?

Abbiamo imparato ad evitare ma quando è accaduto?

Il non indagare oltre non ci impermeabilizza dalla sacrosanta verità.

Non è che se non vogliamo sapere poi non lo sapremo.

Sottovalutare questo problema attuale non lo abolirà automaticamente sperando nella clemenza futura. Tutti di corsa ma per andare dove? Pazienza, questa sconosciuta. Quando abbiamo sviluppato questa irrequietezza? Non sappiamo attendere. E come mai? Chi ha fatto del nostro presente un meccanismo automatico, del tutto e subito? Quando abbiamo già cominciato a perdere?

Tutto bene, grazie lascialo ai distratti.

Quando ti chiedo come stai voglio sapere

le ipotesi che ti attraversano dalla gola al fianco,

qualsiasi iniziativa dei tuoi mignoli

e dei diari sì, quelli che non hai scritto.

(Inedito, Francesca Coppola)

Francesca Coppola

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