Il caso Gambirasio e i suoi enigmi

Per la Procura nessun dubbio, ma, secondo il cognato di Bossetti solo “notizie costruite”

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cms_7466/2.jpgMassimo Bossetti è in carcere, condannato due volte, in primo e secondo grado, per l’omicidio di Yara Gambirasio, ma sono diverse le incongruenze a gravare sul caso. Lo ha ricordato Agostino Comi, cognato del muratore, alla trasmissione Iceberg, andata in onda su Tele Lombardia, lanciando pesanti accuse alla Procura di Bergamo. A suo carico ci sarebbero secondo l’uomo solo “notizie costruite […] è una cosa assurda che Massimo abbia fatto quello che loro dicono. Non abbiamo mai avuto dubbi, adesso più che mai. Erano loro che volevano metterci dei dubbi con gli interrogatori martellanti che ci hanno fatto, non erano cose che stavano né in cielo né in terra”.

Come sua sorella è convintissimo dell’innocenza del cognato. Ha raccontato di quando, il 27 novembre 2010, giorno dopo l’assassinio della giovane ginnasta, i due fossero assieme al bar:

è sempre stato normalissimo, non credo che una persona che abbia fatto una cosa del genere rimanga sempre impassibile, lui non sa fingere”, rimarcando che mai sarebbero state presentate le prove della sua colpevolezza.

Ci batteremo fino all’ultimo, fino in Cassazione perché se un innocente è dentro vuol dire che qualcuno è fuori e quel qualcuno è dietro a qualcosa di più grosso come abbiamo sempre detto e come molta gente pensa… Abbiamo fatto qualche ipotesi su chi è stato, come tutti, ma non è quella che dicono loro, per cui vediamo”.

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Le centocinquanta pagine di motivazione della sentenza descrivono un essere dall’”animo malvagio”, indotto al terribile omicidio dal “contesto di avance a sfondo sessuale verosimilmente respinte dalla ragazza, in grado di scatenare nell’imputato una reazione di violenza e sadismo di cui non aveva mai dato prova fino ad allora”. Una motivazione che dovrebbe situarsi “al di là di ogni ragionevole dubbio”, requisito essenziale richiesto dall’ordinamento affinché un cittadino venga posto in restrizione e che, secondo la difesa mancherebbe.

cms_7466/4.jpgQuesta sentenza non è altro che la riproposizione della requisitoria del pm”, commentò l’avvocato Claudio Salvagniprima di procedere, assieme al collega Paolo Camporini, al ricorso in appello.

Anche se per un avvocato devono contare le carte processuali e non il convincimento dell’innocenza del difeso, in questo caso, segnato da un lavoro – immagino – serrato, entrambi gli avvocati, credono intimamente in Bossetti. Lo disse proprio Salvagni nel corso di un’intervista pubblicata da Bergamo Post il 24 febbraio scorso.

A carico di Bossetti: il Dna, probante se perfetto cioè se l’appartenenza corrisponda, al di là di ogni ragionevole dubbio, alla persona incriminata. Una prova regina nel suo caso, sulla quale però la difesa ha mosso diverse eccezioni, mai sottoposte a contraddittorio. Segno evidente che la magistratura giudicante l’abbia ritenuta incontrovertibile.

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Sugli slip del cadavere di Yara, rinvenuto in un campo di Chignolo tre mesi dopo, è stata ritrovata una quantità esorbitante di Dna, cosa che avrebbe permesso lo svolgimento di diversi esami. È stato appurato che non fosse sperma, ma nessuno è stato in grado di dire cosa fosse. Anche il Dna di Yara è stato rilevato, in modalità compatibile con la degradazione dovuta al tempo di esposizione del corpo agli agenti esterni. Quello attribuito a Bossetti era invece integro, come se fattori esogeni non l’avessero intaccato. Mentre il Dna della vittima era presente inoltre in forma mitocondriale, quello del colpevole no. C’è un Dna mitocondriale che invece è riferibile a qualcun altro, di cui però non si conosce l’identità. Un Dna nucleare non corrispondente a un Dna mitocondriale è una dissonanza non di poco conto.

È per questo che la difesa di Bossetti ha chiesto con forza di ripetere il test. Una richiesta respinta perché ritenuta superflua.

Se anche ci fosse una possibilità su un miliardo in natura che accada una cosa del genere [che possano non coincidere Dna nucleare e mitocondriale ndr], me lo devi dimostrare, altrimenti stai condannando un uomo all’ergastolo sulla base di un elemento incerto” aveva detto a Bergamo Post l’avvocato. “In questo processo si è piegata la realtà per far tornare tutto, ma non torna niente. Le sembra normale che venissero pubblicati degli atti coperti da segreto istruttorio? […] Com’è possibile che in un processo dove vige il segreto istruttorio, dove in fase di indagine le cose non dovevano sapersi, sono state sbandierate in televisione e sui giornali?”.

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Altra incongruenza riguarda il luogo in cui è morta. Un colonnello dei Carabinieri - l’avvocato precisa che è negli atti processuali - testimoniò di aver visto con i suoi occhi che gli arbusti dell’erba che Yara stringeva nella mano, fossero radicati al suolo. Dunque era per forza morta lì. La dottoressa Cattaneo, medico legale rispose invece, a precisa domanda della presidente sulla questione, che gli arbusti non lo erano”. Pertanto la ragazza potrebbe non essere morta lì. Negli atti – lo dice sempre l’avvocato – è pure il video del furgoncino di Bossetti: un colonnello dei carabinieri, comandante dei Ris, ammette che quel video è stato realizzato di comune accordo con la Procura per esigenze di comunicazione”.

Certo, ad incolpare il muratore ci sono le fibre rinvenute sul corpo della ragazza, compatibili con quelle dei sedili del suo Fiat Daily.

Due tesi a confronto, come sempre accade tra accusa e difesa. Da un lato ciò che mai in un mondo civile dovrebbe succedere: la morte di una ragazza, poco più che bambina con una vita da vivere e sogni da realizzare, dall’altro un uomo all’ergastolo con richieste, che potrebbero anche inchiodarlo definitivamente, rimaste inascoltate. Forse il materiale biologico si è degradato dopo tutti questi anni e dunque un’ulteriore perizia sarebbe inutile.

Riflettiamo però sulle criticità di specie dell’esame del Dna, utilizzato come attestazione di certezza assoluta.

E riflettiamo su un dato ben più importante: è nel rispetto della dignità umana e nell’interesse supremo della verità, che ci si deve spingere “oltre ogni ragionevole dubbio”, tenendo sempre i processi al riparo della stampa.

Vincenzo Fortino

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