Islanda: la nostalgia delle foreste abbattute dai vichinghi

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Per un istante, proviamo a chiudere gli occhi e a condurre la nostra fantasia nella Scandinavia del IX secolo d.C. In molti sapranno delle potenti e feroci tribù vichinghe e del modo in cui per secoli queste hanno saccheggiato e conquistato le più svariate terre, fino a rendere il proprio destino e le proprie gesta centrali nella storia medievale europea. Eppure, non tutti sanno che, per lungo tempo, le tribù vichinghe hanno vissuto un profondo periodo di crisi. La ragione? Le terre nordiche (all’epoca ben più fredde di adesso) erano scarsamente coltivabili, il che causava una importante carenza di cibo e la conseguente paura di una carestia nei popoli vichinghi e nei loro guerrieri. A questo si aggiungevano le frequenti guerre civili generate dall’avidità e dalla scarsa lungimiranza dell’allora Re di Norvegia, Harald il chiaro. In altre parole, ben presto i popoli vichinghi maturarono l’idea di abbandonare la Scandinavia per terre più pacifiche e fertili. Certo, per loro sarebbe stato semplice tentare di colonizzare l’Irlanda o l’Inghilterra (cosa che, peraltro, sarebbe accaduta neppure due secoli dopo), ma quelle terre erano difese da potenti ed organizzati eserciti, contro i quali sarebbe stato necessario dar vita a una lunga e sanguinosa guerra. Fu per questa ragione che i vichinghi ebbero l’intuizione di recarsi su un’altra isola, più lontana e più piccola, ma pressoché disabitata. Un’isola esplorata per la prima volta soltanto 50 anni prima da alcuni monaci irlandesi, e che da allora era divenuta il luogo ideale per mistici ed eremiti. Un’isola dove le giornate erano incredibilmente lunghe nel mese di giugno ed incredibilmente brevi a dicembre, al punto che Dicuil, uno dei monaci che vi si era recato, aveva scritto: “In quel luogo l’oscurità regna d’inverno, mentre d’estate la luce è così intensa da permettere di afferrare le pulci sui vestiti”. Un’isola, in ultimo, intorno alla quale aleggiava un enorme alone di mistero.

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Nell’874, come previsto, i vichinghi approdarono in Islanda e, nel giro di pochi mesi, la colonizzarono. Secondo il Landnàma, uno dei più antichi manoscritti della storia nordica, in origine furono solo 435 gli uomini che invasero l’isola, stabilendosi principalmente nella zona settentrionale e sud-occidentale, dove vi era la maggior diffusione di coste. Col tempo, tuttavia, la presenza vichinga crebbe sempre di più: divenne necessario intensificare l’allevamento di pecore e di altri animali per ricavare il cibo ed il vestiario di cui il popolo aveva bisogno. Ben presto, inoltre, emerse un problema: in Islanda c’erano troppe foreste. Proprio così: se oggi siamo abituati a considerare quel territorio brullo e quasi integralmente privo di alberi, occorre ricordare che all’epoca ben il 40% del terreno islandese era ricoperto da boschi.

Ma non è tutto, perché per un popolo di navigatori come i vichinghi, in un’epoca in cui le imbarcazioni erano quasi integralmente costruite in legno, gli alberi rappresentavano una ghiotta fonte da cui ricavare questo prezioso tessuto vegetale. Ben presto, infatti, i vichinghi si resero conto che sarebbe stato sufficiente abbattere gli alberi per ottenere in poco tempo sia il legno di cui avevano bisogno che lo spazio necessario per far nascere i propri allevamenti. Un’occasione alla quale non seppero resistere…

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Con gli anni, i vichinghi migrarono presso lidi più fertili, affrontarono grandi battaglie e ottennero gloriose vittorie, fino a quando l’ineluttabile peso della storia gravò anche sul loro popolo decretandone, di fatto, la fine. L’Islanda, viceversa, dopo i vichinghi conobbe la dominazione del Re di Norvegia prima e di quello di Danimarca poi; la piccola isola trascorse secoli bui e difficili prima di riuscire a ottenere la tanto agognata indipendenza nel 1944. Nel susseguirsi degli eventi e delle epoche, di quella che era la vegetazione originaria non rimase neppure l’ombra. I vichinghi avevano distrutto tutto e nessuno, in seguito, fu in grado di rimediare ai loro danni. All’inizio degli anni ‘50, solamente l’1% del territorio era ricoperto da alberi; una cifra che, da allora ai giorni nostri, è cresciuta solamente di un ulteriore, insoddisfacente, punto percentuale.

Eppure, il governo islandese non sembra disposto ad abbattersi. Proprio negli ultimi giorni è stato annunciato un ambizioso progetto, il cui scopo è quello di riportare il patrimonio forestale ai livelli precedenti all’arrivo dei vichinghi: si desidera in altre parole, far tornare ad essere l’Islanda ciò che era dodici secoli or sono. I vantaggi di questa iniziativa? Molti, anzi moltissimi. Tralasciando l’effimera questione estetica e l’attrazione che un panorama naturale così suggestivo potrebbe generare in decine di migliaia di turisti, un’Islanda piena di boschi assorbirebbe gran parte dell’anidride carbonica, eviterebbe l’erosione territoriale e, infine, garantirebbe una maggiore prosperità alla fauna locale.

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Naturalmente, il progetto è stato accolto con profondo entusiasmo dal popolo islandese e, più in generale, con grande ammirazione da parte del mondo ambientalista. Immediatamente, in molti hanno parlato del modello e della lungimiranza con cui il governo di Reykjavík sta proponendo una politica verde, innovativa e, per certi, versi perfino rivoluzionaria. Tutto ciò non è bastato a escludere le numerose complicazioni che, inevitabilmente, sono sorte intorno al programma. Oltre alla complessità di quest’ultimo, infatti, è necessario far notare che la betula pubescens, un albero autoctono fortemente diffuso in Islanda nel Medioevo, ad oggi non attecchisce più al terreno a causa delle differenze climatiche attestate rispetto al passato. Molto probabilmente, la sua presenza verrà sostituita da piante e da alberi differenti, come pini, larici e abeti rossi, i quali dovrebbero avere maggiori probabilità di crescere rigogliosamente in un habitat simile. La forestale islandese si è già messa al lavoro per importare direttamente dall’Alaska una serie di sementi selezionate con la massima cura e con la più rigorosa attenzione.

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L’obiettivo è quello di far sì che entro il 2020 il 12% del territorio islandese sia ricoperto da boschi e foreste. Come detto, la strada sarà indubbiamente in salita. Ma, in fondo, cosa sarebbe il mondo se non avessimo il coraggio di sognare? Cosa sarebbe il mondo se non avessimo la forza di inseguire i modelli ambientali e culturali che in qualche modo la storia sembra imporci? Per quanto una sfida possa essere difficile, vale sempre la pena provare ad affrontarla… forse è proprio questo il messaggio che in questi giorni l’Islanda sta cercando di trasmettere al mondo intero.

Gianmatteo Ercolino

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