L’OPINIONE DEL FILOSOFO

La città come enigma: Napoli e Parigi (Parte Prima)

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Walter Benjamin e la città del XIX secolo

cms_25137/Walter_Benjamin.jpgL’obiettivo di Benjamin è cercare le origini della modernità nel XIX secolo, presentando alla coscienza le fantasmagorie del capitalismo, che la consapevolezza delegittima. È scavando in esse che Benjamin cerca di svelare la collocazione originaria della modernità. Affrontare la visione complessa e metodica di Benjamin sulla città moderna è un obiettivo ambizioso, così come percepire le modalità con cui si sviluppa l’antropologia urbana. La storia della città ospita un insieme di esperienze la cui unicità è meno aperta all’indagine storiografica che a un ritrovamento involontario di significato, utile per produrre un’esperienza di città che interpreti l’archeologia urbana da un pensiero in tensione.

Nel "Libro dei Passaggi", Benjamin scriverà a proposito di Parigi prolungando l’ipotesi culturale di "Napoli", caratterizzando la sua critica della modernità partendo dalla città e dai suoi molteplici labirinti.

cms_25137/2_1646879561.jpgParigi è chiaramente la città centrale nell’opera critica di Walter Benjamin. Ma è anche possibile trasformare la sua ricerca nel vertice di una figura che è composta da altre tre città: Berlino, Mosca e Napoli. Questa nuova figura, plurale e diversificata, fortemente articolata, è l’area urbana, che si nutre della realtà di queste quattro città, fino a formare una nuova città, luogo della socializzazione e dell’interdipendenza, tanto reale quanto immaginata.

È all’interno di quest’ area urbana che l’esistenza interiore diventa oggetto di ricerca sociale e si formula una teoria sociale partendo dalle osservazioni e dalle emozioni. È nell’interiorità, dove l’individuo cerca di proteggersi dal bombardamento costante a cui è sottoposto, che troviamo quella distanza sociale che fonda il punto di partenza della sociologia delle emozioni e dei sensi. Dettagli di vita che compongono la filosofia delle folle, quelle collettività indefinite che si incontrano e disintegrano all’interno dello spazio sociale della città.

Benjamin affronta il materialismo del capitalismo e la conseguente espansione di una forma limitata di ragione strumentale, il suo volto nascosto: l’impoverimento dell’individualità. Percorrendo i labirinti urbani alla ricerca degli “scarti” di quella società, prodotto della razionalità moderna, Benjamin incontra una nuova soggettività. In un’epoca di razionalizzazione sociale e industrializzazione di massa, gli individui si spersonalizzano, perdono la loro identità e sono oggettivati ​​da strutture omogenee e universali, in cui lo Stato agisce come grande totalizzatore progettuale onnicomprensivo.

Lo shock e lo sconcerto generale per il nuovo fenomeno della città e della folla hanno permesso a Benjamin, ma anche a Adorno, Krakauer e Simmel, di pensare l’urbano in un modo ancora molto attuale. L’esperienza della città ha uno scopo politico e nasce dal disagio. Napoli come oggetto di scrittura, di pensiero e di lavoro si presenta come enigma, come incantesimo capace di risvegliare una memoria involontaria che produce la rottura con ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo. Concentrando la sua analisi sugli ambiti apparentemente poco influenzati da questo processo di razionalizzazione, Benjamin adotta il metodo socratico, con la missione di risvegliare l’apatico mondo europeo sopraffatto dal sogno dei moderni sofismi. Entrando e uscendo da questa mappa, Napoli riflette le preoccupazioni estetiche e politiche di Benjamin: la modernità e la sua preistoria, la rivoluzione, il linguaggio, la tecnologia, l’aura e la perdita dell’aura, l’esperienza e la fine dell’esperienza, le stesse che preoccupano la Napoli contemporanea.

Vista storicamente, la modernità può essere indagata come realtà contraddittoria e come preistoria, con lo scopo di scavare, nei segreti della quotidianità, le radici dell’eterna e presente contraddizione moderna: l’irrazionale, l’istinto, la violenza, i processi di massificazione sociale, in una visione critica della modernità, che ci riposiziona dinanzi alla questione postmoderna.

Walter Benjamin e Asja Lacis: Napoli, una città premodern

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Partito per Capri nell’aprile del 1924, Walter Benjamin finisce per stabilirvisi, cambiando due volte domicilio: “qui almeno - scrive all’amico Scholem in una lettera del 10 maggio - la vita è meno cara che a Berlino”. Risiede “Al caffè Zum Kater Hiddigeigei - Al gatto Hiddigeigei, in piazza, luogo d’incontro serale dei tedeschi, nell’attuale via Vittorio Emanuele al primo piano. Benjamin arriva con 600 carte per concentrarsi e scrivere finalmente il libro sull’”Origine del dramma barocco tedesco” (Trauerspiel), di cui a Capri stilò la celebre “Premessa gnoseologica”. Per giorni osserva una giovane straniera, Asja Lacis, che sarà uno dei grandi amori della sua vita, che gira per l’isola con la figlia. Finalmente in una drogheria la incontra e si offre di aiutarla quando la vede incapace di dire "mandorla" in italiano: la scena si conclude con lui che esce dal negozio portando il sacchetto delle mandorle, inciampando e spargendole per la piazza.

Benjamin e Lacis visitano Napoli insieme: “Vedemmo - scrive Lacis nelle sue memorie -, una grande miseria: intere famiglie vivevano in mezzo alla strada per risparmiare la pigione. […] Poi Benjamin – continua - mi propose di scrivere insieme un articolo su Napoli”. Per tutta la vita tormentato da problemi finanziari, il suo amico Krakauer gli commissiona delle recensioni per la Frankfurter Zeitung e l’editore gli manda soldi da Berlino. Consegnato alla Frankfurter Zeitung in primavera, l’articolo intitolato semplicemente “Napoli”, sarà pubblicato il 19 agosto 1925. Questo è il primo di una serie di interventi che Benjamin dedica alla città, di cui descrive la forma e soprattutto la dinamica, cioè l’immagine. Nella vicinanza del Vesuvio e di Pompei, di fronte alla vitalità di una città mediterranea, sviluppa la categoria della “porosità”, di cui parlerà con Asja Lacis nel loro articolo "Napoli", osservando e descrivendo la grandezza tellurica della città: tutto ciò forma la cornice ideale per riflettere sull’allegoria barocca.

Nel bel libro del 1926, “Strada di direzione unica”, dedicato ad Asja Lacis, molti aforismi parlano del "calore che abbandona le cose". Benjamin, pellegrino triste e malinconico, un vagabondo nel corpo e nella mente, da intellettuale tedesco del nord Europa, osserva la caotica quotidianità napoletana, e la grandezza e decadenza del sudeuropeo. Le sue osservazioni partono da una visione teologica e marxista che si può definire “culturale” o “eclettica”, applicato a costellazioni surrealiste o più profondamente, magiche. Nel resoconto di viaggio “Napoli”, scritto con l’attrice e drammaturga lettone Asja Lacis, Benjamin riunisce, intorno a descrizioni di spostamenti e costumi, brevi cronache di sogni e sottili narrazioni, un ricco materiale autobiografico ed esperienziale, chi incontra queste istantanee letterarie, troverà passaggi, biblioteche e caffè, problemi personali e collettivi. I confini tra privato e pubblico sono tenui e discontinui, vita pubblica e vita privata si mescolano in uno scenario teatrale vitale e disordinato.

cms_25137/0.jpgBenjamin riconosce in Napoli un paradigma di città premoderna con vistosi caratteri antimoderni: la dimensione arcaica è espressa da una società popolare che si impadronisce dell’antico per attualizzarlo in una forma mitica, facendo il verso all’attualità e confermando le immutabili credenze della tradizione. Napoli appare agli occhi di Benjamin come un luogo di resistenza alla modernità all’interno di un circuito autoreferenziale, una resistenza che si esprime nel vivere affollato negli interstizi di quella “porosità” che si presenta come la parola-chiave per designare Napoli, che mantiene valori e vestigia arcaici di fronte alle trasformazioni sociali ed economiche. Benjamin scava nei segreti del quotidiano le radici dell’eterna e presente contraddizione moderna.

È a Napoli che Benjamin nel 1924 vive l’ebbrezza del camminare per le strade circondato da una folla eccessiva e incessante che si pone in naturale corrispondenza con la fantasmagoria degli oggetti apertamente esposti ad arredare uno spazio pubblico visibilmente immanente. È a Napoli, che Benjamin sperimenta per la prima volta questo sguardo sui rapporti nascosti tra gli uomini e gli oggetti, al fine di cogliere le forme metafisiche dell’oggetto-merce racchiuse nel valore allegorico. Napoli gli mostra il carattere esibizionista delle cose reificate in merci, cose che comunicano immediatamente se stesse.

Benjamin vede riflessa nella fantasmagoria delle merci esposte nell’affollata via Toledo, “una delle vie più frequentate della terra” la compenetrazione di elementi contrastanti che caratterizzano l’immagine generale di Napoli. “Parto – scrive Stendhal -. Non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli; ai miei occhi è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo” (aforismi). In Benjamin, la visione di via Toledo rappresenta la prefigurazione del passage parigino: “Solo le fiabe conoscono questa lunga linea che si percorre senza guardare né a destra né a sinistra se non si vuole cadere vittima del diavolo”, in cui risuonano le parole di Benedetto Croce: “Napoli è una città meravigliosa abitata da diavoli”.

Via Toledo e le strade della flânerie napoletana, i suoi mercati e le folle che si rovesciano in esse, diventano l’immagine archetipica della fantasmagoria delle merci e delle genti che affollano la dimensione metropolitana moderna. L’esperienza della flânerie napoletana, così come di lì a poco sarà quella moscovita dell’inverno 1926-1927, serve a Benjamin per scoprire alcuni elementi decisivi del carattere della metropoli moderna che poi ritroverà a Parigi, la capitale del XIX secolo, adottando il metodo napoletano, caratterizzato da una particolare forma di montaggio frammentato, rapido, contrastante. Le due città sono contrapposte e ricordate come due forme essenziali dell’immagine, secondo Benjamin.

Ciò che Benjamin vedrà nei passages parigini, come luoghi di transito e luoghi di vita, così come nelle grandi esposizioni e nei grandi magazzini, lo aveva già visto a Napoli, città che meglio di ogni altra gli ha mostrato, nel processo di compenetrazione dei contrasti, il carattere dialettico insito nell’attraversamento della folla e nella comunicazione degli oggetti. Benjamin ha imparato a Napoli che attraversare la folla, avere un confronto diretto e choccante con la massa, è un’esperienza necessaria per comprendere i reali, seppure nascosti, rapporti tra gli oggetti reificati che, a loro volta, hanno attraversato il tempo per riconfigurarsi nell’attualità grazie al loro carattere di merce e al loro manifestarsi espositivo. Lo sguardo di Benjamin sugli oggetti ne svela il rapporto economico-metafisico con la folla, avendo come teatro il labirinto metropolitano eccessivo e compenetrato, poroso e non formato: l’esercizio della conoscibilità, come sguardo sull’attualità dei rapporti per cogliere i segreti chiusi nella memoria, è stata esercitata a Napoli ancora prima che a Parigi, poiché la città partenopea si è rivelata il prototipo della metropoli che racchiude e palesa il fondo arcaico contenuto nella fantasmagoria del moderno, esibito collettivamente.

Sono proprio la ricca barbarie dei gesti eccessivi e il traboccare delle merci che conducono Napoli, secondo Benjamin, al di là della sua immagine retorica – la Napoli romantica delle prospettive e dei pittori vedutisti – verso un’immagine che rispecchia “il vivo gioco delle forze della storia e soprattutto della vita popolare che nella bellezza selvaggia e barbarica della città ha lasciato la sua impronta in modo involontario e con artistica regolarità”. Quando Ernst Bloch e la moglie soggiornarono a Capri nel settembre del ’24, s’intrattennero a lungo con Benjamin e Lacis. In Italien und die Porosität, pubblicato nel 1926 sul periodico Weltbühne, Bloch adotterà il concetto di porosità estendendolo a cifra dell’intera penisola: “Dalla Piazza di Capri a Piazza San Marco a Venezia, l’Italia è pervasa di tali saloni da festa, anzi da ballo, all’aperto. In queste piazze è mescolata – è anzi in esse che si trova finalmente a casa – il caldo riparo degli interni”.

La Napoli che Benjamin impara a conoscere gli servirà per affrontare Parigi ed è per alcuni aspetti diversa rispetto a quella che stupì Goethe - anche lui era stato travolto dal vortice quotidiano della folla e dall’infinita varietà dei piccoli commerci - nel suo “Viaggio in Italia”: “la città che bilancia tutte le avversità e iniquità da lei ancora oggi tenute in serbo per il turista con la straordinaria vita della sua gente”. “Napoli è un paradiso - scrive - tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di se stessi. A me accade lo stesso; non mi riconosco quasi più, mi sembra d’essere un altr’uomo. Ieri mi dicevo: o sei stato folle fin qui, o lo sei adesso”.

Benjamin tornerà a parlare di Napoli nel 1931 nel corso di un ciclo di trasmissioni alla radio di Francoforte. In questa occasione, Benjamin riprende il tema della visione del mondo produttivo precapitalistico di Napoli, documentando sia l’arretratezza del tessuto industriale della città, sia il modo con il quale le merci vengono esposte per le strade e nei mercati. Il traboccare delle merci dai negozi, fino a invadere la strada, si congiunge con un commercio spicciolo che fa della strada il suo negozio. Alla teatralità dei mercati, dove il confine tra recitazione della vita ed eccesso di vitalità poggia sulla massima esposizione degli oggetti e delle persone, corrisponde la quotidiana ricerca della festa, il cui paradigma è colto da Benjamin nella festa di Piedigrotta.

Il carattere premoderno dell’atteggiamento festivo è ravvisato da Benjamin nella lunga preparazione alla festa, in un festeggiare che asseconda la permanenza delle condizioni e degli equilibri sociali, garantendo non solo la continuità dello status quo, ma i rapporti di proprietà e le condizioni di vita all’interno della scala sociale. L’apparente democratizzazione della festa rende possibile alle masse di pervenire alla propria espressione, lasciando inalterati i disequilibri sociali, a cui Benjamin perverrà qualche anno più tardi, nel 1936, nella chiusa del saggio sull’”Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Infatti, mentre lo Stato esercita il controllo sul proletariato attraverso il monte di pietà e il gioco del lotto, lo svago garantisce che non vi siano tentazioni di cambiare lo status quo, né di alterare i rapporti di proprietà e le condizioni di vita all’interno della scala sociale.

Napoli, città porosa

cms_25137/4.jpgIl termine “porosità” deriva dalla radice greca poros (πόρος), che indica passaggio, strada, guado, sentiero, attraversamento. Poros e’ molto vicino a “Cronos” dio delle forze del tempo. Il pensiero mobile ed errante di Benjamin, nel suo vagabondare inquieto e suggestivo, individua nella porosità quella capacità dell’attività umana di perforare un perimetro costruito e di fornire un modello alternativo alle enclaves urbane della “città moderna”. Accettare il “poroso” come matrice metodica, è lasciarsi contaminare dalla strada, dalle saggezze eterne del popolo. Entra nelle crepe, in ciò che accade tra continuità e irruzione. È dalla realtà napoletana che Benjamin parte per ripensare le città, in un ‘estetica che deriva da “altre modernità”, modernità che ci traghetta verso la postmodernità o la trans- modernità.

Accettare il poroso, come matrice metodica, è lasciarsi contaminare dalla strada, dalle saggezze indicative ed eterne del popolo, nel rapporto di continuità spazio-temporale, di momenti intercalati, conferma di permeabilità, rapporto che incarna il non lineare e il non sequenziale, la molteplicità, l’ambiguità e l’ambivalenza. Anche nel creativo, nella poiesi, nulla è definito, tutto scorre. C’è incontro e contatto, quiete e riposo sono sostituiti da spontaneità, vagabondaggio e azione. È un ambito sociale, culturale e architettonico sempre pronto ad accogliere il futuro, l’imprevisto. Ma se si pensa che la porosità abbia solamente a che fare col semplice rovescio di dentro e fuori, “la strada di Napoli allora insegna come una città italiana possa uscire all’esterno anche senza piazza, come sia la stessa caoticità di una stanza a costruire una piazza nell’immagine della città”.

La vita privata è frammentaria, porosa e discontinua - scrive Benjamin -, inondata da flussi di vita comunitari che trasformano l’esistere in una questione collettiva: così la casa “non è tanto il rifugio in cui gli uomini si ritirano, quanto l’inesauribile serbatoio da cui escono a fiotti”. La compenetrazione di privato e pubblico fa sì che l’ambiente domestico si ricrei sulla strada, allo stesso modo di come la chiassosità della strada penetra fin dentro le case.

L’esistenza, la cosa più privata per i nordeuropei, è qui una questione collettiva. Così la casa non è tanto il rifugio in cui le persone entrano, quanto piuttosto il serbatoio inesauribile da cui sgorgano. Non è solo attraverso le porte che esce l’animazione, è anche esternamente che le persone svolgono i loro compiti. Come le stanze della casa si ripetono per strada, con sedie, cucina e altare, così, solo in modo molto più rumoroso, la strada entra nelle camere da letto. Così come la strada è piena di carri, persone e luci, nelle case anche il più povero è pieno di candele di cera, santi di porcellana, grappoli di foto alle pareti e letti di ferro. Dalle finestre dei piani superiori si calano ceste per la posta, la frutta e il carbone legati a funi.

Così, la porosità come spirito vibrante che trasuda al di là dei meccanismi del potere si insinua nella vita urbana, apre le strade, alleggerisce l’aria, fonde l’abitante con il territorio urbano. Le persone si mimetizzano e si fondono, sperimentano e vivono lo spazio a diverse velocità di flusso. Napoli, oltre che “spazio” è anche "momento", perché deduce il movimento come tempo del "prima" e tempo del "dopo". Uno non è mai solo "dentro" o "fuori", si è dentro e fuori allo stesso tempo. Esistere a Napoli, dice Benjamin, è un "affare collettivo e plurale". Quando si aggira per Napoli, la politica è nel rito festivo, nel carnevale, nella festa. L’arcaico vive nella modernità.La porosità è la legge che si ritrova sempre, inesauribile, in questa vita. C’è un’impronta domenicale nascosta in ogni giorno della settimana e molti giorni della settimana in una domenica! La vita privata è dispersa, porosa e intrecciata.

La "porosità" si presenta così, come legge inesauribile della vita urbana. Il multifunzionale assorbe gli usi domestici e comuni, sfumando i confini fisici che definiscono le funzioni. Spazio deperibile, dove gli abitanti sviluppano modalità di relazione particolari e non convenzionali. Nella ragione porosa c’è la passione per l’improvvisazione, che esige che lo spazio e l’opportunità siano protetti ad ogni costo. I territori sono deterritorializzati, i loro ormeggi disancorati, i loro rilievi scanalati, i loro bordi traboccanti e i loro centri decentralizzati. (DL, 2013, 125). Nessuno è guidato dai numeri civici. I riferimenti sono aziende, fonti e chiese. E non si tratta sempre di riferimenti diretti. Perché la tipica chiesa napoletana non è esposta su un’immensa piazza, visibile da lontano, con navate, coro e cupola, ma è nascosta, incassata.

La porta insignificante, spesso solo una tenda, è il portico segreto dell’iniziato. Un solo passo lo porta dalla confusione di cortili sporchi alla pura solitudine di un ambiente ecclesiastico dalle pareti imbiancate a calce. La sua esistenza privata è il correlato barocco di un’intensa vita pubblica. Perché la vita privata non si svolge qui tra le quattro mura, con moglie e figli, ma nella devozione o nella disperazione. Giù per strade laterali, la vista scivola su gradini sporchi (…). In questi angoli è appena distinguibile dove è ancora in costruzione e dove è già iniziata la decadenza. Perché nulla è finito o concluso (...).

L’arcaico vive nella modernità e nella festa, nel rito festivo, nel carnevale, in uno spazio dove le relazioni sono non convenzionali e libere. La porosità si presenta dunque come legge inesauribile della vita urbana, sfumando i confini che definiscono le funzioni. Il materiale con cui è realizzata Napoli è il tufo giallo, elemento vulcanico liberato dalle profondità marine dal Vesuvio e solidificato a contatto con l’acqua del Mediterraneo. Fuoco e acqua del vulcano e del mare, entrano nelle crepe, tra continuità e irruzione. Tuttavia, al di là della morfologia, prevale il caos, il dialogico e il rizomatico. Torrenti di vita comunitaria percorrono tutti gli atteggiamenti e tutte le esigenze individuali dei cittadini napoletani ed è ciò che distingue Napoli da tutte le grandi città.

Ciò che distingue Napoli da tutte le grandi città è: torrenti di vita comunitaria percorrono tutti gli atteggiamenti e tutte le esigenze individuali. Tuttavia, “In realtà la città è grigia – scrive Benjamin - un grigio rosso, oppure ocra, un grigio bianco. E tutto grigio contro cielo e mare. Questo è, nientemeno, ciò che scoraggia il turista. Perché chi è cieco alle forme qui vede poco” (WB, 1925). Percepire la porosità consiste nel comprendere lo spazio urbano come un processo, piuttosto che un’entità fisica fissa, e in questo senso, scoprire pratiche e usi che si oppongono a un progetto predeterminato, cioè, l’abitabilità della città, cioè la capacità di vivere in azione e non solo in costruzione.

Così, la porosità come spirito vibrante che trasuda al di là dei meccanismi del potere si insinua nella vita urbana, apre le strade, alleggerisce l’aria, fonde l’abitante con il territorio urbano. Le persone si mimetizzano e si fondono, sperimentano e vivono lo spazio a diverse velocità di flusso. Benjamin scrive “in realtà è grigio(In Wirklichkeit ist sie grau). La porosità lavora insieme al grigio. Il grigio come colore, come stratificazione, forse anche come superficie, è lo splendore della potenzialità. Il grigio è pura trama. La porosità lavora insieme al grigio. Eppure, la porosità, la porosità all’interno di Napoli, non è un’aggiunta né un’opzione. Organizza Napoli operando come sua legge. Il diagramma di “Napoli” emerge non dal mettere in discussione l’accuratezza letterale della descrizione di Napoli di Benjamin, ma dall’interno delle sue formulazioni, in un ambiente concepito come poroso.

La domanda speculativa, ovviamente, deve essere posta: cos’è vedere il grigio? Per cominciare, è vedere tutti i colori in grigio. Il grigio è sempre la gamma dei colori. Benjamin ammette che questo grigio predominante può avere un effetto negativo. Continua dicendo che "chiunque non vede (nicht auffaßt) la forma vede poco qui, (hier wenig zu sehen)." Cosa c’è da vedere nel grigio? Vedere nel grigio, anziché limitarsi a vedere il grigio, significa consentire alla vista di acquisire il proprio tipo di porosità. Di nuovo, ciò che è all’opera qui è il movimento di compenetrazione.

Solo il presente, che lo articola, può mettere in atto il passato. Questa porosità si insinua tra i fondamenti delle istituzioni e delle legalità. Napoli rappresenta lo spazio urbano flessibile in termini di usi e forme, incarna quegli spazi che danno vitalità a una città, dove le persone osservano, si rilassano, comprano, vendono, protestano, si lamentano, festeggiano. La porosità ha una presenza effettiva. Eppure, se invece di parlare di “porosità”, cominciamo a parlare di “città porosa”, la complessità originaria che il luogo Napoli contiene viene allo scoperto. Definire la città dai suoi bordi porosi, ha un potenziale inesauribile e apre all’osservazione indefinitamente.

Fine della prima parte (segue)

Gabriella Bianco

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