L’ETERNA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA

(La logica è un’opinione)

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Con quella che il Governo Renzi si appresta a varare, saremo a un numero altissimo di “riforme” della Giustizia, sbandierate come tali ma che poi si risolvono in un leggero maquillage, insufficiente a ringiovanire il volto di un essere troppo malandato. Rinuncio in partenza a citarvi le varie leggi intervenute in argomento almeno da venticinque anni a questa parte, perché sarebbe come leggere un elenco più lungo e noioso di quello telefonico. Così come evito di illustrare i dettagli tecnici delle singole iniziative, poiché ci porterebbe lontano dal senso di queste mie considerazioni di carattere inevitabilmente generale.

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Quel che mi sembra interessante rilevare, invece, è la presenza di alcune caratteristiche ricorrenti nelle varie “riforme”; infatti, questa iterazione di elementi comuni prova storicamente, sul piano empirico, l’inefficacia di questi tentativi e, quindi, la valenza simbolica, se non addirittura squisitamente propagandistica, di quelli che ciclicamente vengono riproposti nonostante l’esperienza negativa acquisita.

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Basti pensare che, innanzi tutto, ogni “riforma”, tra cui la prossima, si pone l’obiettivo di accelerare i processi, smaltendo a un tempo gli arretrati. Manco a dirlo, nessuna riforma ha centrato il bersaglio, come dimostra il fatto, ovviamente, che rimane sempre lo stesso, di riforma in riforma. In secondo luogo, anche gli strumenti attraverso cui si cerca di raggiungere lo scopo sono i medesimi, e cioè: A) una più o meno fantasiosa incentivazione alla “amichevole” composizione delle liti (pendenti e da intraprendere), con relativa creazione di organismi destinati allo scopo; B) arruolamento straordinario di giudici onorari che dovrebbero accompagnare verso una dignitosa tumulazione i fascicoli, ormai quasi cadaveri, che non ne vogliono sapere di andare all’altro mondo.

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Il tutto con procedure quasi mai chiare, che si intrecciano e stratificano senza aumentare né efficienza, né efficacia del sistema, semmai contribuendo a renderlo un rompicapo per enigmisti. Ora, se obiettivi di fondo e strumenti per raggiungerli sono, nelle loro linee essenziali, sempre gli stessi per ogni riforma, si può essere relativamente certi che il riproporre ancora una volta la minestra riscaldata non avrà effetto alcuno. Per la verità mi devo correggere, perché bisogna ammettere che i vari Governi un certo risultato deflattivo l’hanno raggiunto, ma non perché l’abbiano voluto, bensì come effetto di altre manovre, e quindi, come si dice in questi casi, per serendipità. Intendo riferirmi, sotto questo aspetto, all’innalzamento stratosferico dei costi necessari per sostenere una causa in Tribunale (chiameremo genericamente così il luogo di una contesa), attuato solo ed esclusivamente per recuperare risorse economiche, e che però ha indotto moltissimi cittadini a desistere dall’intraprendere un giudizio o dall’impugnare anche quelle sentenze che appaiono palesemente ingiuste. Ora, è chiaro che questo effetto deflattivo nasce da un ricatto economico che mortifica il bisogno di Giustizia (e quindi il senso stesso di questa parola), e non dalla definizione naturale delle vertenze o dall’azzeramento delle condizioni che generano i conflitti. Quest’ultimo cenno mi consente di introdurre il vero problema della giustizia.

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Un problema che nessuno vuole denunciare chiaramente perché ciò imporrebbe di metter mano a una “RIFORMA” delle fondamenta del nostro sistema (e, soprattutto, delle menti degli operatori del diritto), e non alla ennesima “riforma” che ha l’anodino aspetto di un brodo vegetale riscaldato. Volutamente lascio da parte le sterili polemiche che di solito accompagnano i progetti di riforma e che vedono i vari schieramenti di Giudici, Avvocati e burocrati, menarsele di santa ragione per attribuirsi reciprocamente le responsabilità dello sfascio, perché la verità di queste recriminazioni, per quantità e qualità, è pari alla loro esagerazione e quindi alla loro falsità, sicché il loro peso si azzera e va bene discuterne per appassionare gli animi del pubblico televisivo che segue i talk show, non per trarne seri elementi di valutazione.

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Io credo che il malessere del nostro sistema siano la vaghezza delle norme che dovrebbero regolare la convivenza delle persone, l’eccessiva libertà di interpretazione dei fatti (e delle stesse norme) da parte di chi giudica e la libertà di non tener conto dei precedenti, cioè delle sentenze già emesse per casi simili. Questa situazione genera inevitabilmente il ricorso ai Tribunali, poiché tutti, sapendo che la propria situazione può andar bene o male in causa a seconda di come tira il vento, tentano la sorte, e chi perde in primo grado cerca di rifarsi in secondo grado. È logico che sia così, purtroppo, poiché, se è vero che ogni Giudice la stessa questione la vede a modo suo, una probabilità di vincere c’è sempre, e anche in appello il perdente in primo grado potrebbe rifarsi, un po’ come accade giocando a poker.

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Non mi sembra che questa realtà (in generale, certamente) possa sfuggire a chi ha un minimo di senso critico. Dunque una prima correzione del sistema deve prevedere un esame delle norme che statisticamente sono più invocate nei giudizi (ad esempio in ambito di Condominio o di appalto), per renderle più definite, limitando così la babele di pronunce diverse. In secondo luogo deve essere più marcato il principio nomofilattico, cioè l’orientamento uniforme dei Giudici nel decidere casi simili, applicando quindi le norme alla stessa maniera. È intuitivo immaginare che, con queste correzioni, qualsiasi cittadino e avvocato che siano sani di mente decideranno di intraprendere una iniziativa giudiziaria solo se vi sarà innanzi tutto una norma chiara su cui far leva, e, come ulteriore sicurezza, un orientamento dei Giudici già consolidato nella direzione sperata. Meno creatività e più certezza?

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Sì. L’ho detto anche in altra occasione: la Giustizia è un servizio ai cittadini, non l’arena dove far divertire i maestri di retorica. E ribadisco ancora, ma qui si dovrebbe aprire un dibattito molto largo e profondo da affrontare, che il grado di Appello, in sé, è logicamente assurdo. Infatti, se norme e applicazione delle stesse da parte dei Giudici restassero come sono, e cioè proteiformi, resterebbe immutato quello che il giudizio di appello è ora, e cioè la semplice rivincita per chi ha perso, dato che una verità certa di riferimento non c’è. Insomma, nessuno può logicamente affermare che il Giudice superiore decida meglio di quello inferiore (principio pazzesco perché porterebbe a considerare che tre gradi siano meglio di due, quattro meglio di tre e così via). Se invece norme e applicazione fossero certe, l’appello avrebbe ancor meno senso.

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Eliminando il grado di appello si libererebbero immense risorse, umane ed economiche, e di conseguenza lo smaltimento dell’arretrato e la velocizzazione delle procedure non sarebbe che un effetto naturale di tali “nuove” risorse. Anche Ulpiano, noto grande giurista romano (170-228 D.C.), le cui dottrine confluirono nel Digesto di Giustiniano (533 D.C.) non era poi tanto convinto della funzione pratica dell’Appellatio, sebbene non se la sentisse di sostenere apertamente la sua inutilità. Ma i tempi sono cambiati. Non possiamo permetterci di mantenere un grado di giudizio dove è impegnato un Collegio intero di più Giudici (ma dove è risaputo che a decidere è in sostanza il Consigliere-Istruttore-Relatore) per decidere la rivincita instaurata dal perdente, senza alcuna ragionevole valutazione di un miglior operato sul piano oggettivo. Ma ciò, se avverrà, non sarà presto. E quindi torneremo a parlare di riforme, ultra riforme e mega riforme. Ci piace così, che volete farci. Va precisato che quello di cui ho parlato in questo articolo vale per i giudizi civili, non per quelli penali, amministrativi e tributari, sui quali non mancherà di scrivere e tediarvi in futuro.

Nicola D’Agostino

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