L’EUROPA TRA BREXIT E FUTURO
"Il Regno Unito rinasce, mentre l’Europa finisce. Forse. Il futuro dell’Unione tra speranze, prospettive e l’ipotesi ’Quitaly’

Sono trascorsi tre mesi e nulla di ciò che è stato previsto, a riguardo della Brexit, si è avverato.L’economia inglese non è finita, le imprese volano, gli investimenti crescono: se nell’anno sono aumentati dell’11%, la spinta decisiva è arrivata proprio dagli ultimi mesi. Il Pil tiene e le proiezioni dicono che continuerà a crescere fino al 2%.Alla faccia di chi pontificava sulle disastrose conseguenze!La sterlina ha sì perso quota, ma ciò è andato a vantaggio delle esportazioni. Per effetto indotto, il costo dell’import è aumentato. Così si tenderà a comprare di meno dal mercato estero e a produrre in casa, come ai gloriosi tempi della Rivoluzione Industriale, quando l’Inghilterra, da first comer, deteneva la leadership dello sviluppo. Si dilatano le vendite al dettaglio che a luglio hanno toccato percentuali da boom: + 5,9% su base annua. Scendono di 8.600 unità le richieste di sussidio. La disoccupazione resta al livello più basso degli ultimi undici anni. Quota 4,9%.
Vola persino il mercato delle case con un aumento del prezzo che sfiora il 5,6% su base annua, rispetto al 5,2% dell’anno precedente.La concessione dei mutui è ai minimi storici, ma il taglio dei tassi, operato lo scorso mese, inietterà, secondo le previsioni della Banca d’Inghilterra, una buona dose di fiducia.E dopo l’inevitabile scivolone di luglio, la Borsa di Londra sale del 10%.Non c’è dubbio: la Gran Bretagna è ripartita. Segno evidente che a star fuori dall’Europa ci si guadagna e non poco!In verità non è una sorpresa: il Fondo monetario internazionale aveva detto chiaramente che la sterlina era sopravvalutata.Con la Brexit, l’Inghilterra ha realizzato un colpo da maestro, aggiustando, per mezzo dell’effetto psicologico, la sua valuta.È bastato questo per riconquistare il mercato. Del resto il ragionamento è lineare: il valore monetario scende, i costi interni diminuiscono. Si compra in casa, si vende all’estero.Come avrebbe potuto verificarsi quindi la catastrofe preconizzata dalla stragrande maggioranza degli economisti?L’eurozona è in caduta libera. Sganciarsi da una realtà fallimentare era l’unica cosa sensata che un paese serio potesse fare.
Certo, sulla decisione ha inciso – e non poco – la rivendicazione di quell’autonomia che nell’Unione stentava a restare a galla, assorbita da un conformismo che poco piace a chi alla propria differenza tiene davvero.Così mentre gli altri membri si ostinano a realizzare un programma – quello della BCE - espressione di un organismo nel quale non si ravvede alcuna legittimazione politica e che si sottrae di fatto a qualsiasi controllo da parte di uno Stato di diritto, il Regno Unito ottiene la possibilità di darsi leggi proprie.Nessuna linea di governo dettato dall’alto e nessun tecnicismo made in Europe. I diktat d’oltremanica i britannici non li eseguono.Ma alla fatiscenza dell’Europa non tutti ancora credono, anche se qualche voce fuori dal coro inizia a dire la sua.Non è quella di Salvini, ma di Christopher Wood che coordina la strategia azionaria della CLSA, società di gestione che fa capo a un gruppo cinese.
“Dimenticate la Brexit, il prossimo scossone si chiamerà Quitaly, da “quit” (lasciare) e “Italy”.L’analisi l’ha esposta durante un briefing a Hong Kong dove si parlava del manifatturiero che vede l’Italia seconda in Europa.“L’Eurozona arriverà al punto di rottura prima che i negoziati sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea vengano completati. Il mio scenario di riferimento è questo e penso sia probabile che il prossimo Paese a uscire dalla Ue sia l’Italia – ha precisato Wood -. È il secondo maggior Paese manifatturiero d’Europa e guardate come sta andando la crescita del suo Pil rispetto a quella del resto dell’Eurozona e al Giappone. Per questo vorrà tornare alla sua lira per spingere le esportazioni”.Certo, sbirciando la terra della Regina, attraverso il velo calato dai media, il paragone viene da sé.
Ill Bel Paese ha una fortissima esigenza di portare all’estero i propri prodotti e quindi di poter operare una strategica svalutazione del soldo.L’Europa, l’ho scritto molte volte, poggia le sue fondamenta su un’infelice logica friedmaniana, recante intrinsecamente il presupposto della sua fine. Perché una realtà che basa la propria vita sul male delle parti è destinata nel tempo a perire, schiacciata dal peso di una moneta unica che più che regolato ha impoverito.Lo ha fatto creando disoccupazione nei Paesi più deboli che, durante le deflazioni, diventano poco competitivi e sono costretti a ricorrere all’abbassamento salariale. La disoccupazione è una via. La flessibilità del lavoro un’altra. Lo scenario politico che va profilandosi tra i confini di Schengen non è affatto roseo.Tanto che verrebbe da dire – se non da sperare – che l’UE sia alle sue estreme battute.
“Le nuove regole dell’economia” è l’ultimo lavoro dello statunitense Joseph Stiglitz. Tratta delle distorsioni ideologiche e delle deregolamentazioni che hanno incrementato la disuguaglianza, secondo uno scriteriato piano neoliberista che ha portato l’economia al collasso.In America, e in parte dell’Europa, si sono rese inaccessibili a una larga fascia di popolazione, sanità, istruzione e proprietà.La diversità nelle condizioni, aggravata dalla grande recessione del 2008, è tanto causa quanto effetto della crisi.Dice le cose come stanno Stiglitz, trascendendo il convenzionalismo. L’ha sempre fatto, sin dai tempi di “Globalisation and its discontents” (La globalizzazione e i suoi oppositori. Einaudi, 2002), un’analisi degli errori commessi dal Fondo Monetario Internazionale che, per risolvere le difficili congiunture degli anni ’90, ha sempre proposto la stessa ricetta: riduzione della spesa pubblica, imposizione di una politica monetaria deflazionista e apertura dei mercati locali agli investimenti esteri, senza mai considerare le esigenze delle singole economie.Perseguendo il Washington Consensus, non ha mai protetto i più deboli, né ha garantito la stabilità del sistema globale. Ha fatto invece gli interessi del suo maggior azionista, l’America, a scapito delle Nazioni più povere.Nonostante le critiche, il pacchetto di direttive più pericoloso del mondo, ha dimostrato una straordinaria resilienza e ha ispirato i programmi di aggiustamento economico dell’Eurozona.
Ora, l’idea che l’Europa possa sgretolarsi, fa paura agli Stati Uniti, almeno a quella parte che desidera il mantenimento dello status quo e dunque la perenne contrapposizione alla Russia, mostrando denti e arsenali.Se la Grecia si sganciasse, ad esempio, potrebbe confluire nell’orbita Putiniana.Ciò è vero, non sarebbe gradito, ma c’è un rovescio della medaglia che per forza dev’essere guardato: la convenienza che dal tener in piedi questo grosso baraccone a dodici stelle se ne cava.Ma la priorità ci obbliga adesso a guardarci in casa, non tralasciando le beghe di vicinato. Perché siamo in una posizione delicatissima, nella quale il servilismo – direi patologico – delle ultime gestioni politiche nei confronti dei predoni tedeschi, ci ha posto. E ciò ci ha reso fragili.
L’esibizione della ricchezza germanica è un’opportuna campagna immagine. La garanzia fideiussoria versata in cambio di una leadership, imposta agli altri, senza possibilità di discussione.L’opulenza c’è, ma è nelle mani di pochi. E la sperequazione che rende potenti le élites, costringe gran parte della gente ai “mini jobs” e a una prospettiva post pensionistica di terribile povertà.A dirlo è il DIW, l’istituto di ricerca economica berlinese, il cui capo Marcel Fratzscher è autore del libro “L’Illusione Tedesca”, edito nel 2014.“La nostra euforia è pericolosa – scrive –. Ci rende arroganti, ciechi e ottusi”.Se molti in Germania coltivano l’illusione di poter fare a meno dell’Europa e dell’euro, la verità è ben altra. Il miracolo economico sul fronte occupazionale è stato raggiunto creando migliaia di lavori precari e part-time. La crescita è inferiore a quella di molti altri paesi dell’Unione e il successo dell’export non è dovuto alla produttività quanto ai livelli salariali bassi.
Sarà pur vero che a pensar male si fa peccato, ma è ormai riprovato che ci si indovina sempre. Non me ne voglia allora frau Merkel se dico, alla luce di più d’un’evidenza, che la Deutschland ha bisogno dell’Europa quanto l’Italia ne avrebbe dell’autonomia.Di un’Europa così com’è: squilibrata, spietata e centripeta. Che scarnisce le periferie per nutrire il suo centro. Che al grido di “mors tua, vita mea” sarebbe pronta a calar d’oltralpe le truppe della Troika per depredare ciò che resta della nostrana riserva.
Come fecero per ben due volte i Lanzichenecchi che saccheggiarono Roma e presero Mantova, lasciandosi alle spalle morte e distruzione perché, per dirla con Manzoni “quelli erano diavoli in carne”.
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