L’OPINIONE DEL FILOSOFO
Per un’ etica universale, antropologicamente fondata

L’uguaglianza risiede in quella costituzione antropologica essenziale, che rappresenta una sorta di pattern universale, sopra il quale ciascuno dipinge la propria esistenza come vuole e come può.
Riflettere sulla nozione di cittadinanza, significa farsi carico dell’odierna caduta dei legami etico-politici e del compito di “riprogettare e ripopolare l’agorà ora in gran parte vuota, il luogo d’incontro, di dibattito e di negoziazione tra individuo e bene comune, pubblico e privato”.
(G.Marramao,Passaggio a Occidente,Bollati Boringhieri,Torino 2003, p. 95)
Charles Taylor, sulla dignità umana
Il filosofo con Papa Benedetto XVI
PREMIO RATZINGER AL FILOSOFO CHARLES TAYLOR
Charles Taylor individua la dignità dell’uomo come un vero e proprio valore, come una potenzialità umana universale, una capacità comune a tutti gli umani. È questa potenzialità, e non ciò che una persona può averne o non averne fatto, ad assicurarci che ognuno merita rispetto, anche se la richiesta di tale riconoscimento non si ferma a una presa d’atto dell’uguale valore potenziale di tutti gli umani, ma comprende anche il valore di ciò che essi hanno conseguito, di fatto, da questa potenzialità.
Nel riconoscimento della dignità, come massimo valore umano, rileviamo come gli universali principi ispiratori non sono in contrasto con l’esistenza di un’unica costituzione antropologica basilare, non incompatibile con il pluralismo culturale e con il sostrato etico universale.
Pur condividendo la posizione di Habermas, per il quale “non è possibile desumere dalla costituzione biologico-naturale dell’uomo imperativi di tipo normativo per una ragionevole condotta di vita”, il concetto di dignità umana, che per Taylor è frutto della modernità, ricorda quella della sacralità della vita umana, che per la Arendt di Vita activa deriva dal cristianesimo.
Di fronte a tale moderno valore, per Taylor, il liberalismo si è posto come quella forma politica che funge da garante di questo valore stesso, che abbiamo visto essere la dignità degli uomini fra loro di fatto diversi, ovvero, uomini che hanno realizzato quella che Taylor chiama “potenzialità umana universale”, vedendosi così riconosciuti e garantiti, indipendentemente dalle differenze, nella loro dignità sia “potenziale” che “fattuale”.
Tuttavia, in Taylor, il liberalismo fallisce in tale sua pretesa funzione di garante delle differenze e della universale dignità umana, per due ordini di motivazioni:
1.poiché il liberalismo più “duro” si basa su un sistema cristallizzato di regole, refrattario a qualsiasi modificazione, ospitale verso gli individui e inospitale verso le culture differenti dalla propria, in breve, un certo tipo di liberalismo dei diritti è inospitale verso la differenza perché
a) tiene ferma l’applicazione uniforme delle regole che definiscono i diritti e b) vede con sospetto i fini collettivi.
2.in quanto il liberalismo più “morbido” che si pone come garante e terreno d’incontro per tutte le culture, è frutto di una determinata cultura, quella cristiana.
Il liberalismo occidentale non è tanto un’espressione di quell’atteggiamento laico e post-religioso che è così popolare fra gli intellettuali liberali, quanto una emanazione organica del cristianesimo: da questo punto di vista, il liberalismo non può né deve arrogarsi una completa neutralità culturale. Infatti, il liberalismo è anche un credo militante, e sia la variante “ospitale”, sia le sue “forme più rigide” hanno degli steccati da innalzare. Il liberalismo o omogeneizza le differenti culture, o le riconosce formalmente, salvo poi non offrire loro la possibilità di sopravvivere.
Come sostiene Taylor nel suo Multiculturalismo (1993), l’alternativa al liberalismo risiede in un “multiculturalismo su base comunitarista”, che rappresenta una via di mezzo fra la domanda inautentica e omogeneizzante di un riconoscimento di uguale valore da un lato, e il rinchiudersi entro i propri criteri etnocentrici dall’altro.
Le altre culture esistono, e dobbiamo vivere sempre più insieme, sia su scala mondiale sia in ogni singola società. Oggi ci troviamo al cospetto di due vettori che spingono in direzioni contrarie e apparentemente inconciliabili, ma che in realtà fungono l’uno da propellente per l’altro:
1.la forza centripeta dell’omologazione universale e quella centrifuga della differenziazione, in un processo omologante di “de-territorializzazione” versus un fenomeno diversificante di “riterritorializzazione”, di ritorno alla comunità, alla piccola patria peculiare differente dalle altre;
2. come dimostrazione dei procedimenti “de-territorializzanti”, o come stimolo ai fenomeni “riterritorializzanti”, anche l’abbattimento delle “barriere” fisiche, rappresentate dall’apertura prima e dalla caduta poi del muro di Berlino, rispettivamente nel 1989 e nel 1990, è stato assorbito in questa disputa.
L’appartenenza oggi non può più risolversi completamente, come nel passato, nella cittadinanza: l’appartenenza viaggia ormai attraverso categorie, simboliche, morali, valoriali, che la cittadinanza non è in grado di soddisfare. Tuttavia, l’appartenenza stessa non può neanche risolversi solamente in logiche identitarie comunitarie. Queste dinamiche sono state, a livello filosofico, derubricate come contesa tra Liberalism e Communitarianism, ma a livello pratico-politico designano la scollatura fra il concetto di cittadinanza e quello di appartenenza.
La logica multiculturale finisce per cristallizzarsi in un sistema di differenze “blindate” che, nonostante la conclamata “politica della differenza”, si atteggiano come “monadi” o “situazioni” interessate esclusivamente a tracciare confini netti di non-ingerenza.
Ogni possibile risposta esige un radicale mutamento di prospettiva nell’affrontare le questioni inerenti al pluralismo culturale, ed al relativo pluralismo etico. Si ritiene che le relazioni tra esseri umani differenti, con tutte le loro diversità, possano in qualche modo essere espresse sotto forma di rapporti tra civiltà, invece che di rapporti tra persone.
Intendere le relazioni umane come rapporti tra persone, anziché tra civiltà o comunità, permette di esplorare le questioni inerenti al riconoscimento delle differenze identitarie, in un quadro di valori e principi universalmente valido per tutti gli uomini in ogni tempo e sotto ogni clima.
Le diversità originano dalla contingenza, ogni identità è infatti sempre un’identità contingente, non solo e non tanto nel senso di essere situata, quanto piuttosto nel senso di essere determinata sia da fattori indipendenti dalla volontà umana, sia da scelte compiute, costantemente, da ciascun uomo. L’uguaglianza risiede invece in quella già menzionata costituzione antropologica essenziale, che rappresenta una sorta di pattern universale, sopra il quale ciascuno dipinge la propria esistenza come vuole e come può.
Ne consegue che ad un sostrato antropologico comune ed una etica universale ad esso rispondente, corrisponde una pluralità di formae mentis e di culture, le quali, per non scadere in una logica di “ghetti contigui”, di “differenze blindate” senza porte né finestre, di “piccole isole, ciascuna fuori dalla portata intellettuale e normativa dell’altra”, devono essere costantemente aperte le une verso le altre, basate non sulla tolleranza, ma sul multiculturalismo e sulla cosiddetta “politica della differenza”.
Le problematiche, che Marcuse nella sua Critica della tolleranza (2011), esaminandone meriti e limiti, definisce come “repressiva”, e di cui Aldo Masullo considera i paradossi insiti nella nozione stessa di tolleranza (1992), si manifestano sia nell’ applicazione interpersonale che in quella interculturale. Charles Taylor, spostandosi dal tema della tolleranza a quello del rispetto, considera che non tollerando, ma rispettando l’altro è possibile relazionarsi, confrontarsi autenticamente con lui, “contaminandosi” vicendevolmente, in quanto ciascuno mantiene la propria irriducibile autonomia e le proprie differenze specifiche, derivanti dal determinato, contingente modo di sviluppo e soddisfazione delle facoltà e necessità umane, senza però trincerarsi in esse e dunque modellandosi nel “contatto inquinante” con l’altro.
Tale concetto si espone tuttavia ad un duplice ordine di critiche: la tolleranza viene elargita da chi ha la volontà di tollerare, ma che potrebbe non avere più tale volontà in futuro, per cui il concetto di tolleranza tende a scivolare verso quello di sopportazione, che cela una pressoché totale svalutazione delle posizioni altrui.
Grazie al concetto di diversità ed alla politica della differenza, se vogliamo scongiurare lo scontro individuale ed evitare lo scontro fra culture che si verifica quando la diversità alimenta paura e rifiuto, dobbiamo attribuire un valore positivo a contaminazioni e a incontri, che aiutano ciascuno di noi ad allargare la propria esperienza, rendendo così più creativa la nostra cultura.
L’irriducibilità di una persona ad un’altra, di una cultura ad un’altra, non implica solo la possibilità del confronto, al contrario, esso avviene autenticamente grazie ad una sorta di “universalismo della differenza”, in cui proprio l’in-assimilabilità delle singolarità costituisce il trait d’union fra le differenze stesse, potendo avvenire sul terreno di un’ etica universale, antropologicamente fondata.
In questo modo viene svelata la falsità dell’alternativa tra diversità gerarchica e uguaglianza universale, inglobando due posizioni, il razzismo e l’universalismo. Intendere realisticamente la differenza, significa accettare gli altri come diversi e uguali.
La civiltà mondiale non può essere altro che “coalizione di culture”, ognuna delle quali preservi la propria originalità: le differenze non si identificano mai con l’essere, ma sempre si differenziano dall’essere. E soltanto perché si differenziano, producono il fenomeno del divenire, della vita.
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