LA FRAGILE E ONDIVAGA DEMOCRAZIA AL TEMPO DEI SOCIAL

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Croce e delizia del suo mandato presidenziale, arma mediatica e propagandistica sempre pronta all’uso durante il suo prestigioso incarico sulla poltrona più importate del mondo. Ora che gli Stati Uniti hanno ufficialmente proclamato il loro 46° presidente, si può effettuare un’analisi del travagliato rapporto tra Trump e i social network. All’unanimità giornalisti e opinione pubblica hanno sentenziato come circa 4 anni fa, una gran parte del merito della sua, allora, sorprendente elezione fosse da imputare alla battaglia social intrapresa dai suoi ghost writer e social media manager su Twitter ai danni della strafavorita candidata democratica, Hillary Clinton. L’abilità dello staff di Donald Trump fu, ieri come allora, andare a pescare nel torbido del montante disagio nazionalista americano. Ogni argomento, dal risentimento nei confronti della Cina al suprematismo bianco, era una strategia pianificata a tavolino per portare l’outsider Trump alla Casa Bianca, e quando si parla di odio e diffidenza, i social diventano il non luogo ideale per veicolare messaggi dal formidabile potere amplificatore. Se nel 2016 questo modus operandi venne premiato, oggi la storia d’amore con i social network sembra aver intrapreso ben altra strada, sino ad arrivare ai giorni nostri, quando alla pagina più buia della giovane democrazia americana si è affiancato il tiro incrociato da parte delle piattaforme di condivisione.

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Alle parole di Trump pronunciate nel corso di un video poi fatto circolare sul web e dopo i disordini accaduti dentro e fuori dal Congresso, molti utenti si sono letteralmente sollevati per chiedere la rimozione del contenuto postato dall’ormai ex presidente. Detto fatto. Qualche ora dopo su Twitter è apparso un messaggio che, rifacendosi alla policy del social network, bloccava l’account @realDonaldTrump per 12 ore, minacciando più serie conseguenze (sospensione permanente del account) se fossero poste in essere altre violazioni delle regole interne di Twitter. Dello stesso tenore anche la decisione dell’altro colosso del mondo social, Facebook, che ha rimosso il video e ha sospeso gli account legati a Trump. Riepilogando si è passati da un iniziale completo lassismo delle piattaforme digitali circa i contenuti postati da Trump e dal suo staff a un atteggiamento censorio sulla loro divulgazione. Prendendo spunto su un rapporto travagliato, fatto di iniziali facili concessioni a dure condanne e limitazioni di parola, sarebbe opportuno discutere sulla valutazione e sul significato stesso della democrazia al tempo dei social, e sull’uso responsabile da parte dei singoli utenti, siano essi personaggi pubblici o semplici cittadini. La giusta condanna dei fatti accaduti nel cuore della democrazia moderna, devono farci riflettere sulle diffusione e sulle conseguenze di discorsi d’odio e di fake news all’interno di luoghi ormai da non considerarsi più staccati dalla vita reale, ma integrati in quella che viene definita come network society.

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La società in rete si avvale di una logica organizzativa e di un paradigma in cui l’informazione risulta essere la materia prima dell’ecosistema digitale contemporaneo. I social media rivestono all’interno di tale società iperconnessa un ruolo di primo piano, aggregatori sempre più spesso di facili estremismi e poco coscienziosi della propria potenza di fuoco nell’alimentare sovranismi e populismi. La storia di Trump al negativo e prima di lui di Obama, in positivo, deve lasciarci in eredità la consapevolezza che la creazione di una macchina dal facile consenso elettorale, nel caso della politica, sia incredibilmente semplice se si dispongono delle menti e delle tecnologie giuste. La crisi ormai decennale della democrazia rappresentativa, le forti disuguaglianze di reddito, la sempre più precaria esistenza individuale, favorisce l’onda populista, di destra e di sinistra, in cui le piattaforme social svolgono, nel bene e nel male, sempre più una funzione di cassa di risonanza degli umori e dei risentimenti di un presentismo triste. E allora i social diventano il core business del marketing politico populista, perché nessuno meglio di loro riesce ad esprimere lo Zeitgeist dell’imperante datismo contemporaneo.

Andrea Alessandrino

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