LA MODA DEVE AVERE UN’ETICA?

IL FAST FASHION STA PAGANDO PER TUTTI?

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In un mondo di persone sempre più attente all’ambiente, alle condizioni di lavoro e allo sfruttamento minorile sempre più spesso è il mondo del fashion messo sul banco degli imputati ed in particolare i colossi del fast fashion additati come il male assoluto. Accusati di favorire il lavoro minorile, la manodopera a basso costo, orari di lavoro al limite della schiavitù, lavoratori che vengono ammassati in capannoni fatiscenti e senza alcun standard di sicurezza intenti a confezionare capi ed accessori per soddisfare l’edonismo di noi occidentali. Paesi come Bangladesh, Cina, Vietnam, Indonesia, Messico e Cambogia, per gli accusatori, sono costantemente sottoposti ad uno scempio ambientale e culturale, ma siamo così certi che la colpa di tutto ciò è da addebitare esclusivamente al fast fashion? Uno studio di non molto tempo fa della Penn State University ha evidenziato come anche i luxury brand pretendano di pagare sempre meno per il confezionamento dei loro capi che peraltro avviene nei medesimi paesi dove si produce la moda low cost, quindi se vogliamo fare gli integralisti etici a tutti i costi dobbiamo ripensare al modo di approcciarci al fashion che sia fast o luxury cominciando a limitare gli acquisti, a far durare di più i nostri capi, ad acquistare capi usati o per dirla in modo più chic vintage, perché il cambiamento parte da noi e spostare la colpa sempre verso gli altri, come i colossi del fast fashion è pura ipocrisia, perché se loro esistono come d’altronde anche i grandi brand è solo perché c’è una sempre più forte richiesta di collezioni continuamente aggiornate, di capsule collection soprattutto da parte dei millennials.

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Quando leggiamo notizie sconvolgenti come è stato il disastro del ventiquattro aprile 2013 a Rana Plaza in Bangladesh dove morirono 1134 persone sepolte dalle macerie della loro fabbrica nella quale erano intenti a cucire capi per l’occidente non è giusto puntare il dito contro il fashion, ma oltre ad essere indignati dovremmo chiederci se non sia anche un po’ colpa nostra e del nostro bisogno compulsivo di acquistare sempre capi nuovi. Ma al contempo dobbiamo essere consapevoli che se questo sistema chiamato moda si ferma molti saranno i posti di lavoro che saranno messi a rischio e non vorrei che gli stessi integralisti etici che imbrattano le vetrine degli store low cost non siano gli stessi che girano per le strade con una t-shirt logata Gucci e sempre gli stessi che protestano per tutelare i lavoratori dei vari store che inevitabilmente chiuderanno o che hanno già abbassato definitivamente le loro serrande.

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In molti sono pronti ad affermare che il fast fashion sia in crisi e che tra trent’anni scomparirà del tutto adducendo come prova a carico la grave crisi che da tempo sta scuotendo il colosso svedese H&M che solo nello scorso anno ha avuto un calo definito il più basso dell’ultimo decennio con quattro miliardi di dollari di capi invenduti. Ma la realtà è ben diversa, perché se è pur vero che il colosso svedese è in grave affanno, la multinazionale Inditex (che annovera tra gli altri Zara e Bershka) ha chiuso l’anno scorso con un, se pur minimo, sette per cento di utile. Credere che la crisi di H&M sia il preludio della fine del fast fashion significa non conoscere minimamente il mondo della moda e il mondo dell’economia perché a mio modesto parere la grave crisi che sta attraversando il colosso svedese è dovuto a molteplici fattori tra cui i più macroscopici sono tre: innanzitutto H&M a differenza di Zara non ha fabbriche proprie dove produrre i propri capi e questo si ripercuote sul non essere al passo con i trend e i micro trend che si susseguono in una sola stagione, ecco spiegato perché da Zara trovate capi che rispecchiano il trend del momento, ma anche i micro trend dell’ultima ora, una migliore qualità di confezionamento dei capi e un frequente assortimento della merce (l’azienda vanta un ciclo produttivo di sole due settimane per confezionare un capo), tutto questo è pura chimera dalle parti di H&M. Altro punto debole del colosso svedese è da sempre la comunicazione, le presentazioni delle sue collezioni non sono mai state glamour e in taluni casi le sue campagne pubblicitarie hanno causato un grave danno d’immagine al colosso come la scelta (infelice) di far indossare una felpa ad un bambino di colore con la scritta:”coolest monkey in the jungle” che hanno provocato forti proteste ed etichettato il brand come razzista. H&M si è limitato ad un laconica ed irritante replica: ”è stata una svista” che, manco a dirlo, ha infiammato ancor di più le proteste, francamente l’ufficio marketing nella gestione di una situazione così delicata ha fallito su tutta la linea, tacere sarebbe stato meglio. Terzo e non ultimo tasto dolente è l’assoluta mancanza di eleganza degli store , ormai pochi perché per arginare la grave crisi il colosso ha chiuso molti dei suoi store sparsi per il mondo. Le vetrine che notoriamente sono il biglietto da visita di uno store sono totalmente prive di glamour, inibiscono anche una fashion addicted come me…ed è tutto dire! Gli store sono asettici e con layout e display da far invidia all’Ikea, ma la cosa peggiore è la sciatteria con cui è esposta la merce, i capi sono spessissimo in disordine, introvabili e messi lì senza alcun criterio cromatico, di genere e di suggerimento (capisco che l’eleganza non sia una dote innata dei popoli scandinavi, ma caro H&M non ci siamo proprio! e te lo dice una vetrinista ed esperta di layout e display).

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Questi e altri fattori hanno contribuito e contribuiscono alle continue perdite del colosso svedese e non la (presunta) crisi sbandierata da più parti, neanche affermare che tra non molti anni questa tipologia di moda consumistica sia destinata a morire è vera. Siamo così sicuri di poter rinunciare ad avere subito disponibile negli store un capo che solo ieri abbiamo visto su Instagram indossato dalla influencer più popolare? Il ciclo produttivo a ritmi serrati che contraddistingue Zara rendendolo il leader della moda low cost ormai detta legge ed anche i grandi brand hanno dovuto adeguarsi creando non solo la collezione principale per quella determinata stagione, ma anche mini collezioni, collezioni resort e capsule collection. L’idea di slow fashion ormai è un concetto superato nel mondo della moda che guarda al futuro e a quello che il mercato emergente richiede, anche se i colossi del fast fashion un giorno togliessero il disturbo, come si augurano gli integralisti etici, il loro modo di intendere la moda con i loro ritmi serrati resterebbero comunque indelebili nel DNA del fashion. Soprattutto perché ci sono paesi emergenti come Brasile, Messico, India, Cina e Russia dove la spesa per il fashion è in continua crescita, dove una nuova classe media è alla continua ricerca di status symbol (come lo eravamo noi negli anni ’80 e ’90) che affermino l’acquisita ricchezza e per la quale le tematiche ambientali non sono una priorità, per questi due importanti motivi il fast fashion non morirà mai, perché finché ci saranno nuovi mercati desiderosi di emergere ci sarà sempre una richiesta che un’offerta dovrà soddisfare.

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Tornare indietro è difficilissimo se non impossibile, questo per onestà intellettuale e non solo per fare propaganda è giusto dirlo come del resto è altrettanto giusto dire che non è puntando il dito contro il mondo del fashion che la situazione ambientale e lavorativa cambierà. La verità è che pochi di noi sono disposti a rinunciare a quello che abbiamo oggi, io in primis, ormai lo sapete sono una fashion addicted e amo la moda e ad essa non ho intenzione di rinunciare, ma è onesto ammetterlo e non nascondersi dietro un dito. Molto spesso vedo gente che si assolve con grande disinvoltura addossando ad altri le proprie responsabilità, ma è bene sempre ricordare che l’offerta esiste perché c’è una richiesta e non vi assolve dire: “tanto se non l’acquisto io ci sarà sempre un altro che lo farà!”. Ho sentito l’esigenza di scrivere questo articolo perché l’ipocrisia che respiro in questo momento si taglia a fette, a parole siamo tutti per un ambiente più pulito e per condizioni di lavoro più equo, ma nei fatti tutti, o quasi tutti, cedono all’acquisto compulsivo, la prima sono io ad ammetterlo, ma che ha l’unico pregio di non essersi mai nascosta dietro un velo di ipocrisia. Per il mio essere una fashion addicted non ha mai dato la colpa ad Amacio Ortega Gaona (fondatore di Zara) identificandolo come il male assoluto, troppo facile fare così gli integralisti etici!

Su questo tema, più che mai, vorrei conoscere la vostra opinione e quale sia il vostro approccio al mondo della moda e prima che mi scriviate preoccupati, niente paura dalla prossima settimana ritorna la solita fashion addicted che continuerà ad anticiparvi tutti i trend per la prossima stagione e i must have da non lasciarsi sfuggire, il lupo perde il pelo, ma non il vizio…ahimè!

T. Velvet

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