LA NORMALITÀ’ CHE UCCIDE
Di fronte a episodi di criminalità giovanile il rischio è di generalizzare fenomeni che, per quanto ripetuti in forme diverse, restano fortunatamente marginali.
Nella nostra società, accanto ai giovani che fanno parlare di sé nelle pagine della cronaca nera, ci sono quelli, assai più numerosi, che si segnalano per il quotidiano e silenzioso impegno a favore dei poveri, dei malati, degli emarginati.
Questo va detto per evitare che la giusta riprovazione morale nei confronti di certi eventi si trasformi nella condanna moralistica e indiscriminata di una generazione.
Non c’è dubbio, tuttavia, che certi gesti di violenza, apparentemente gratuiti e assurdi, provocano in tutti noi un sentimento di profonda inquietudine ed insicurezza, quasi fossimo costretti a convivere con creature mostruose, di cui non riusciamo a decifrare la contorta psicologia.
Lo sconcerto diventa tanto più grande, quando leggiamo sui giornali il ritratto che di questi ragazzi fanno i loro genitori ed amici: quasi sempre vengono dipinti come individui tranquilli, con abitudini del tutto simili a quelle dei loro coetanei, senza nulla che potesse far pensare a tendenze malvagie e perverse.
Ancora una volta, come è già accaduto con certi grandi criminali della storia contemporanea, il male si manifesta con il grigio colore della “banalità”: il ragazzo che uccide per noia, per incoscienza, per esibizionismo, non veste i panni convenzionali del “mostro”, come sono stati confezionati da una superficiale letteratura dell’orrore, ma è, come si dice, un ragazzo della porta accanto.
Eppure, un giorno, gli stupefatti genitori vengono a sapere che è un assassino, e nella loro angoscia non sanno trovare una spiegazione plausibile di un comportamento così aberrante.
Ebbene, anche a costo di scandalizzare qualcuno, vorrei mettere in discussione queste immagini di “normalità” che parenti ed amici dei colpevoli ci consegnano nelle loro interviste ai giornali.
L’adolescenza è l’età in cui le nuove energie fisiche e psichiche, che l’individuo avverte in sé senza poterle ben padroneggiare, cercano affannosamente uno scopo verso cui indirizzarsi, qualcosa che dia significato alla precarietà e magari alla sofferenza di vivere. Non è facile soprattutto oggi essere giovani, soltanto i parolai e gli smemorati lo possono pensare.
Ma che cosa trovano, oggi, i nostri ragazzi che li aiuti a dare un senso alla loro vita, che li sottragga alle pulsioni autodistruttive che si accompagnano sempre alla crescita delle energie vitali? In molti ambienti trovano poco o nulla, o meglio trovano il facile conformismo del denaro e del successo, l’esaltazione degli istinti e il disprezzo dei sentimenti.
Non si tratta di moralismo. Chi conosce un po’ i giovani sa che dietro certi atteggiamenti di durezza e di indifferenza c’è un sentimento di profonda solitudine, la sensazione avvilente di non farcela, di non essere all’altezza dei modelli vitalistici e consumistici che la nostra società propone da ogni schermo, da ogni pagina illustrata, da ogni ribalta. E allora accade che i ragazzi più fragili, quelli che hanno meno risorse morali e culturali, cercano di colmare il vuoto desolante della loro vita con la corsa notturna delle loro auto, o con uno stupido gioco criminale dall’alto di un cavalcavia autostradale o lungo una via ferroviaria…
Sembravano così “normali”… ma dietro quella pretesa normalità, dietro quella falsa tranquillità, c’era, invece, una tragica diseducazione dei sentimenti, c’era la mancanza - in famiglia, a scuola - di ogni vero colloquio.
Troppi genitori si compiacciono di essere genitori “moderni”, di non avere pregiudizi, di essere per i figli soprattutto degli “amici”. Altri non hanno mai né voglia né tempo per occuparsi dei problemi dei loro figli, e se ne ricordano soltanto al momento di sfoggiare una stupida ed inutile severità. Pensano che le “prediche” servano a qualcosa, quando invece occorrerebbe saper ascoltare. Altri ancora rifiutano ogni responsabilità, danno di sé un’immagine fragile ed irrisoluta. Non intendo, facendo queste osservazioni, colpevolizzare oltre misura i genitori; mi interessa, soprattutto, far capire che bisogna avere il coraggio del proprio ruolo e delle proprie responsabilità, che non è giusto cullarsi nell’illusione di una ingannevole normalità.
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