LA PACE E LA NEUTRALIZZAZIONE DEI CONFLITTI (III^ Parte)

L’opinione

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Il riformismo rivoluzionario di Michael Hardt e Antonio Negri

Se la politica consiste nella lotta tra progetti egemonici inconciliabili, Michael Hardt e Antonio Negri, i più noti pensatori della sinistra anticapitalista – o meglio del ‘riformismo rivoluzionario’ – sostengono una visione della democrazia assoluta della moltitudine. Nella straordinaria quantità di riferimenti filosofici, storici e sociologici che stanno alla base del lavoro di Hardt e Negri, i loro lavori costituiscono un coraggioso e brillante tentativo di lettura politica della contemporaneità nella sua totalità.

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Michael Hardt

Nonostante che l’idea della sovranità classica, basata sulla forma dello Stato-nazione, sia stato sostituita da una nuova forma di sovranità senza centro, chiamata “Empire”, e smentita poco dopo la pubblicazione del libro omonimo (Hardt, Negri 2000), l’impianto metafisico impedisce loro di smantellare l’intero apparato teorico. (Hardt, Negri 2004)

Sulla scorta della lettura deleuziana di Spinoza, e delle classiche riletture operaiste dei Grundrisse di Marx, Hardt e Negri sostengono che soggetto e motore della storia umana è la ‘moltitudine’, ovvero l’insieme dei produttori di ricchezza, alla quale si contrappongono delle forze meramente reattive e parassitarie, cioè le multinazionali e le istituzioni economiche del capitalismo.

Se la preponderanza, nel tardo capitalismo, del lavoro immateriale, intellettuale, di cura ecc., ha eliminato la classica distinzione marxiana tra tempo di produzione e tempo di riproduzione, gli esseri umani producono ricchezza non solo quando lavorano, ma in tutto il tempo della loro esistenza.

In tal modo la vita stessa, il mero esercizio delle attività specifiche dell’essere umano viene a essere valorizzato dal capitalismo, che però, giunto a un tale livello di sviluppo dei mezzi di produzione, non è più un sistema economico in grado di sfruttare, né tanto meno di gestire, l’enorme quantità di ricchezza prodotta e inizia a collassare su se stesso, assieme alle istituzioni politiche che lo hanno caratterizzato, lasciando posto a nuove forme di organizzazione della produzione e della società.

All’interno di questo quadro, ciò che viene a mancare è proprio uno dei motivi centrali della filosofia politica, cioè la distinzione tra un ‘noi’ e un ‘loro’, la possibilità di pensare un processo di egemonizzazione, una identificazione collettiva ecc. sulla base di una contrapposizione ben precisa tra classi sociali, gruppi di potere o parti in causa. Se tutti gli esseri umani sono parte della ‘moltitudine’, non c’è più nessuno nel quale individuare un ‘nemico’ e contro il quale costruire la propria identità politica.

L’apparato concettuale messo in campo da Hardt e Negri risulta allora efficace per descrivere eventi quali gli scontri di Piazza Tien-An-Men, il collasso del blocco sovietico o le manifestazioni dei movimenti cosiddetti “No global” e delle loro attuali propaggini, cioè quelle circostanze nelle quali l’improvvisa comparsa (e la rapida dispersione…) di una massa di contestatori non è legata a precise istanze politiche, bensì a rivendicazioni basate su una volontà di cambiamento affidata a parole d’ordine quali ‘libertà’, ‘un altro mondo è possibile’, ecc.

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Antonio Negri

in attesa che l’evento rivoluzionario si produca, il compito che Hardt e Negri affidano ai rivoluzionari è quello di sottrarsi alle operazioni repressive dell’’Impero’, affermando che le pratiche politiche che animeranno il progetto politico della moltitudine sono ancora inconoscibili. (Negri, Hardt 2000)

Questa pratica di sottrazione – impolitica, ma forse destinata a diventare politica – non è nient’altro che una declinazione dell’idea di de-soggettivizzazione e de-identificazione, ovvero di disgregazione delle identità, liberazione delle singolarità in una distribuzione nomade. L’ ‘esodo’ e la ‘diserzione’, dei quali parlano Hardt e Negri, non sono altro che il tentativo di sfuggire a quelle concrezioni politico-economiche che impediscono il sottrarsi della moltitudine alle istituzioni parassitarie del capitalismo.

Hardt e Negri hanno ben chiara la natura relazionale degli esseri umani, ne descrivono l’esistenza come uno sforzo continuo di liberazione e attraversano senz’altro la questione della parte che si vuole rendere egemonica, della parte che si vuole tutto, anche se salta la distinzione marxiana tra chi genera la ricchezza, sebbene in maniera alienata, e chi invece la accumula, poiché tutti gli esseri umani sono già in qualche modo produttori di valore.

Nell’idea di de-soggettivazione, viene a mancare proprio quella relazione conflittuale che precede e rende possibile l’opposizione propriamente politica di un ‘noi’ con un ‘loro’; quindi è il ‘noi’ che deve trasformare se stesso, non attraverso il confronto con l’altro, bensì tramite la liberazione da processi di soggettivazione che Hardt e Negri ritengono sempre vincolati a processi di assoggettamento.

Jacques Rancière, sulla natura dei conflitti

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Jacques Rancière

È Jacques Rancière ad aver riflettuto in maniera radicale sulla natura del conflitto e delle relazioni politiche, addirittura attraverso una sorta di storia della filosofia politica occidentale che va da Platone ad Aristotele, da Hobbes a Marx, alla contemporaneità. (Rancière 1995)

Egli ha mostrato chiaramente come il confronto politico non sia giocato tanto tra le opposte fazioni che si fronteggiano in un ambito più o meno istituzionale, quanto piuttosto tra due parti: quella che gode di una rappresentazione istituzionale e quella che non ha accesso ad alcuna forma di rappresentanza.

Ogni forma di rappresentazione si fonda su un rimosso e questo ‘non-detto’ è l’esistenza di una parte non rappresentata. Per Rancière, ogni ripartizione ineguale della libertà e della ricchezza nasconde il fatto che gli uomini sono tutti uguali, tuttavia, nel giustificare l’ingiusta ripartizione del potere e della ricchezza, proprio nel tentativo di farlo, finisce per palesare tale ingiustizia.

Il politico non è allora per Rancière ciò che nasce dall’identificazione dei singoli in una comunità, ma, al contrario, dal processo di soggettivazione legato al movimento conflittuale generato da una ingiustificabile disuguaglianza. La fine delle “grandi soggettivazioni” legate al riconoscimento delle disuguaglianze ha rilanciato la formula dei ‘nati liberi e uguali’, nella forma dei ‘diritti umani universali’. (Rancière 1995) L’idea di ‘diritti umani’ ha un valore politico solo in quanto attribuita a quanti ne sono esclusi: le donne, i proletari, i migranti, ecc.

Occorre perciò rilanciare un pensiero della prassi politica che metta radicalmente in discussione la ripartizione della libertà e della ricchezza nella società partendo da un presupposto preciso, cioè l’esistenza di una parte della società che non partecipa a quella ripartizione, anzi che risulta solitamente invisibile. La politica è dunque l’emergenza di un invisibile, di un non-rappresentato, di qualcosa che agisce, paradossalmente, solo grazie alla sua assenza.

(Fine)

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Gabriella Bianco

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