LA PAGINA DELLA CULTURA NEI DIALETTI ITALIANI - XVIII^
Aspettando il Natale in¦Calabria

Il clima speciale dell’attesa del Natale in questa Regione è condiviso dalle collettività nell’osservanza degli antichi rituali attraverso i quali sono scanditi ritmi ancestrali.
Per la Calabria, terra di emigranti fino alle soglie degli anni Settanta, il Natale rappresentava la festa grande in cui accoglieva i suoi figli con il calore degli affetti e i sapori. Per tante famiglie era il momento dell’incontro con i propri cari, con gli uomini, emigrati all’estero o al nord, che tornavano a riabbracciare la famiglia e rivedere gli amici.
La sacralità dell’Avvento
Durante le festività natalizie l’appartenenza al territorio diveniva sinonimo di condivisione: stare insieme fino a notte fonda a raccontarsi le esperienze sognando il rientro definitivo nella terra natia. La presenza degli affetti allontanava i brutti pensieri e aiutava a vivere con fede i giorni della festa perché, si diceva, ‘U Segnure aiuta a tutti, dopu Natale Diu pruvvida!. Davanti al camino, ‘u zianu raccontava ai più piccoli antiche rumanze, si facevano numinagli, si giocava, si rideva, si scherzava, si pregava mentre ‘u capufamiglia ‘ntizzava lu focu; le donne lavoravano alli ferri e rattoppava qualche sacco bucato; la vecchia nanna, con in mano fuso e conocchia, dispensava parole amorose raccontando i bei tempi della sua giovinezza; i più giovani andavano in cerca della legna ppe la focara del Santo Natale.
Fino alla seconda metà del secolo passato, se cummattia ppe ‘nu pezzu ‘e pane ed erano tante le famiglie che dovevano fare i conti con la povertà. Ma il Natale era la festa granne e i genitori facevano sacrifici per non mancare ai propri figli i vestiti per falli cumparire alla Missa de menzannotte. Da queste consuetudini deriva il detto: A Pasqua e a Natale sparmanu i villani (a Pasqua e a Natale i contadini vestono a festa).
Tutte le famiglie, dopo la Messa mattutina, celebrata alle prime luci di freddissime albe, ccu la grazia du Segnare si impegnavano nella raccolta delle olive per avere un po’ di olio buono durante ‘i jurni festivi e macinavano il grano ppe fare ‘u pane ‘e Natale. Il pane di rito a forma di corona, detto nataliziu, o massaru (lago), era il retaggio delle figure di uomini e di animali, usate dagli antichi nelle placentae sigillatae dei sacrifici. Venerato nella mensa quotidiana come dono di Dio, veniva benedetto dal più anziano e poi spezzato e distribuito a tutti i familiari per il consumo. Nelle case, di buon’ora, le donne preparavano le ricette della tradizione ‘e cannarutie e le giovani, con cannistri di dolci in testa, portavano ‘a stimenza a parenti ed amici e, soprattutto, alle persone che contavano(il medico, il maestro, il compare, il padrone, l’avvocato).
Già a fine novembre si entrava nella magica atmosfera dell’Avvento.
Sant’Andria portau la nova
ca allu sei è de Nicola
allu ottu è de Maria
allu tridici è de Lucia
allu vinticinque lu veru Messia.
Nelle chiese, gremite da giovani e anziani, la festa del Natale, era preceduta la novena du Santu Bumminu, dalla novena dell’ Immacolata (‘Mmacuata) e da quella di Santa Lucia (de Santa Lucia a Natale ‘nu passu de cane; de Natale ‘mpoi ‘nu passu de voi)
Focare e ceppi
Il rito del fuoco (chi appe pane muriu, chi appe focu campau) era diffuso in ogni rione e per ognuno era motivo di orgoglio primeggiare, approntando u focaru cchiù granne. La partecipazione coinvolgeva i ragazzi di ogni età già alla fine del mese di settembre quando cominciavano a trasportare, supra i carruzzuni, i zucchi (le radici di alberi estratte dal terreno con gran fatica) fino al luogo dove si sarebbe svolta la tradizionale focara (sempre lo stesso). L’accensione era un momento di gioia collettiva per gli abitanti du vicinanzu , fieri di aver dato il proprio contributo con l’offerta di pezzi di legno domestico. U focaru vrujiava na nottata tra suoni, canti e balli, grispeddre, scaliddre, turdiddri e un buon bicchiere di vino.
A Rogliano si svolgeva la Focara da ‘Mmacuata il 29 novembre con un enorme falò, che interessava diversi rioni del paese.
La vigilia dell’Immacolata, in molti paesi del Savuto, si preparava un cenone e si accendeva la jacchera, nove stizze, quanti erano i giorni della novena; in altri borghi era usanza accendere tanti stizzi, quanti erano i componenti della famiglia. Gli stizzi accesi venivano collocati sui finestrali o davanti le porte di casa.
All’alba della Vigilia mentre le ziane, davanti ai vignai, recitavano le prime preghiere mattutine, i contadini erano soliti recarsi nei campi per preparare ‘u cippu o capizzu, il grosso ceppo di quercia o di castagno avrebbe dovuto ardere per tutta la Notte Santa.
La sera della vigilia, tutti i componenti della famiglia si ritrovano davanti al focolare, dove si consumava il vecchio rituale d’u cippu ‘e Natale. Alla stregua del pater familias dell’antica Roma che sacrificava ai Lari od ai Penati, il capofamiglia benediceva il ceppo natalizio e lo poneva nel focolare. Il ceppo si lascia ardere per tutta la notte fino a che non si consumava. Le ceneri e i tizzi si si riteneva che avessero un potere propiziatorio per cui venivano conservati come rimedi contro le calamità naturali.
Nelle case colpite da lutti, il ceppo non si bruciava se non alla fine del periodo di rispetto del lutto stesso.
La Pastorale Natalizia
Gli zampognari suonavano le pastorali girando per le vie di ogni paese portando allegria a grandi e piccini. Era tradizione diffusa celebrare l’arrivo del bambino Gesù al suono della Pastorale.
Pastorale Natalizia
E la notte di Natali
è la festa principali
E scindiru li pasturi
p’adurari a Nostru Signuri...
E ninna, e ninna la vo’...
Dormi, Gesu e fai la vo’...
E ninna, e ninna a vo’...
Dormi, Gesu e fai la vo’...
Bambineddhu duci duci,
jeu ti portu li me’ nuci...
Ti li scacci e ti li mangi,
accussì zittu e non chiangi...
E ninna, e ninna la vo’...
Dormi, Gesu e fai la vo’...
E ninna, e ninna a vo’...
Dormi, Gesu e fai la vo’...
Bambineddhu duci e amatu,
jeu ti portu lu nuciddhatu...
Ti lu mangi in cumpagnia
cu’ Giuseppi e cu’ Maria...
E ninna, e ninna la vo’...
Dormi, Gesu e fai la vo’...
E ninna, e ninna la vo’...
Dormi, Gesu e fai la vo’...
Bambineddhu duci assai,
’nu petrali ti potai...
ti lu manna la mamma mia,
ch’è cchiù ricca di Maria...
E ninna, e ninna la vo’...
Dormi, Gesu e fai la vo’...
E ninna, e ninna la vo’...
Dormi, Gesu e fai la vo’...
(Traduzione)
Pastorale Natalizia
E’ la notte di Natale,
è la festa principale:
così scesero i pastori
per adorare Nostro Signore. (x2)
E ninna, e ninna nanna, dormi,
Gesù, e fai la nanna!
E ninna, e ninna nanna, dormi, Gesù, e fai la nanna!
Bambinello, dolce dolce,
io ti porto le mie noci:
te le sgusci e te le mangi
così stai zitto e non piangi. (x2)
E ninna, e ninna nanna,
dormi, Gesù, e fai la nanna!
E ninna, e ninna nanna, dormi, Gesù, e fai la nanna!
Bambinello, dolce e amato,
io ti porto il nuciddhatu [dolce calabrese]:
te lo mangi in compagnia, con Giuseppe e con Maria. (x2)
E ninna, e ninna nanna, dormi, Gesù, e fai la nanna!
E ninna, e ninna nanna, dormi, Gesù, e fai la nanna!
Bambinello, dolcissimo,
un petrale [dolce di Reggio Calabria] ti portai,
te lo manda la mia mamma, che è più ricca di Maria. (x2)
E ninna, e ninna nanna, dormi, Gesù, e fai la nanna!
E ninna, e ninna nanna, dormi, Gesù, e fai la nanna!
Natale in famiglia
La notte della Vigilia di Natale le donne di casa portavano in tavole le pietanze preparate con cura a partire dai primi giorni di dicembre. Prima di sedersi e consumare il cibo la tradizione imponeva che i figli baciassero la mano ai genitori e ai nonni e questi rispondevano con la benedizione dicendo: benedittu.
La sera del 23 dicembre si consumavano i fritti natalizi ammielati (turdilli, scalille, chinuille, crustuli, cullurielli). Tutta la famiglia, raccolta davanti al focolare, partecipava al rituale che imponeva al capofamiglia di buttare nell’olio il primo pezzettino (a forma di croce) della pasta preparata e di assaggiare il primo fritto. In alcune zone della Calabria, il primo fritto veniva appeso ad un angolo del focolare e tenuto per tutto l’anno fino al Natale seguente, nell’auspicio che si potesse friggere in allegria anche nell’anno venturo. I "fritti natalizi" erano in abbondanza per adempiere agli obblighi di buon vicinato ed anche per dispensarli, a parenti ed amici colpiti da lutti recenti. Secondo l’usanza, solo alle famiglie povere e a quelle a lutto non è consentito tale lusso.
Turdilli
Scalille
Chinulille
Tra un assaggio e l’altro, accompagnato da un buon boccale di vino, si organizzava l’imminente Vigilia, che doveva essere giornata di digiuno in previsione dell’abbondante cenone serale.
Per la cena della sera della vigilia si preparavano nove pietanze‘e e bisognava mangiarle tutte o almeno assaggiarle: pasta con alici e molliche di pane, verza cotta, baccalà fritto, baccalà in umido, baccalà in "tiella" con olive nere, frittelle di broccoli e di cavolfiori, insalata di carota e di verza; ed ancora: crucette, castagne, lupini, noci, finocchi, pitte ‘mbrugliate", turdilli, scalille, chinuille, tutto annaffiato con buon vino.
Dopo aver cenato si lasciava la tavola apparecchiata con una piccola porzione di ogni pietanza perché si credeva che durante la notte la Madonna e il Bambinello sarebbero entrati nelle case per mangiare qualcosa e riscaldarsi al fuoco. In attesa della Santa Messa si raccontavano le rumanze: antiche storielle di fate, orchi, briganti e folletti.
Intorno al focolare acceso le donne anziane insegnavano alle giovani le parole magiche contro l’affascinu, il malocchio.
Al suono delle campane che annunciavano la Nascita di Gesù facevano eco i colpi di fucile. Dopo essersi scambiati gli auguri tutti si recavano in Chiesa per pregare e genuflettersi davanti al Redentore.
Nel menù natalizio figuravano: pasta china (lasagne o grossi maccheroni rigati fatti al forno e farciti con polpettine di vitello, salame piccante, provola dolce, caciocavallo e pecorino); stoccafisso con cipolla, pomodoro, capperi, olive e uvetta; capretto e vrùocculi nìvuri ammullicàti (broccoli conditi con pepe nero, alloro, aglio e pan grattato).
Pitta ‘mpigliata
I dolci tramandati dalla tradizione erano i quazunìelli (calzoncini ripieni di uva passa, noci, mosto cotto e cannella) o cullurielli e la pitta ‘mpigliata.
Dal giorno di Santo Stefano fino quello dell’Epifania le famiglie contadine procedevano al rito della macellazione del maiale.
L’animale il giorno prima della mattanza veniva lasciato digiuno per favorire lo svuotamento delle budella che dovevano essere pulite per preparare con la carne gli insaccati. Avvalendosi di ’u gammellu, ’u majillune, ‘a quadara, ’a quartara, ‘u ntrincaturu, i salaturi, coltelli di vario genere e grosse funi ogni componente della famiglia assolveva al ruolo che il protocollo rituale gli imponeva perché nulla andasse sprecato e perché le carni fossero lavorate a dovere.
La cerimonia dell’uccisione al suono di balli, tarantelle, canzoni improvvisate davanti al focolare veniva festeggiata con parenti e amici con un banchetto solenne a base di carne suina: suffrittu, vrasciole, costolette alla brace, cavoli ripieni con polpette di carne, maccarruni fatti in casa, ed ancora contorni di funghi, cipolline in agrodolce, melanzane, turdilli e frittule.
Al banchetto faceva poi seguito ‘a quadara, un altro rito per gustare con amici e parenti cotiche, lardo, frisuli (avanzo di pezzetti di carne dell’animale).
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