LA RABBIA DEI MESSICANI

Il popolo urla al complotto di Stato e le famiglie cercano la verità.

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Un giallo ancora irrisolto quello dei 43 studenti messicani scomparsi lo scorso 26 settembre. Da settimane le manifestazioni di protesta stanno riempendo le strade del Messico, una protesta contro il governo federale per dare giustizia al massacro di sei persone e alla sparizione forzata di 43 studenti della Scuola Normale Rurale di Ayotzinapa, avvenuti nel municipio di Iguala, Stato di Guerrero. Secondo la versione ufficiale della Procura Generale della Repubblica, gli studenti sarebbero stati fermati dalla polizia locale, come disposto dal sindaco della città di Iguala, José Luis Abarca. La stessa Procura Generale, però, non ha dato ulteriori spiegazioni circa la consegna degli stessi studenti ai “Guerreros Unidos”, un gruppo di narcotrafficanti, che, con molta probabilità, li avrebbero massacrati, uccisi e avrebbero sparso le loro ceneri in un fiume vicino.

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Le famiglie dei desaparecidos non si danno pace e vogliono la verità. Tante sono le domande a cui non si trova risposta. In primis ci si chiede perché il sindaco abbia dato ordine di arrestare, trattenere e perfino uccidere questi studenti. Il governo messicano pare fosse a conoscenza del fatto che questo sindaco, ora in manette dopo una breve latitanza, e sua moglie avevano rapporti con organizzazioni criminali. Eppure durante tutto il periodo delle ricerche e delle indagini non si è seguita questa pista. Perché la Procura Generale e gli organismi di intelligence non hanno avvisato? E se lo hanno fatto, perché l’autorità, in questo caso il Ministro degli Interni Osorio Chong non ha dato le istruzioni per arrestare Abarca o per investigarlo più a fondo?

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Esattamente una settimana fa, il 7 novembre il Procuratore Generale della Repubblica, Jesús Murillo Karam, ha dichiarato una versione “ufficiale” dei fatti, secondo la testimonianza dei tre presunti sicari. Secondo il racconto dei narcotrafficanti arrestati, i corpi sarebbero stati bruciati per quattordici ore e le ceneri raccolte in sacchi di plastica per l’immondizia.

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Gli unici resti trovati nella "fossa degli orrori" di Cocula sono due ossa. I parenti delle vittime e il Messico intero aspettano l’esame che potrà porre fine alla ricerca dei corpi. Dall’analisi di quei frammenti si potrà estrarre il Dna e confrontarlo con quello dei familiari dei ragazzi. Solo allora, ha spiegato Murillo Karam, si potrà essere certi che i corpi dei 43 studenti sono stati realmente bruciati nella discarica di Cocula, come hanno confessato i tre sicari. Gli investigatori hanno trovato un sacco in una discarica a Cocula, ma i parenti delle vittime non credono alla versione dei sicari e attendono le analisi dei laboratori per convincersi che il 26 settembre i ragazzi furono davvero uccisi e brutalmente carbonizzati.

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Secondo il procuratore, dopo più di un mese di investigazione, sarebbe impossibile affermare con certezza che quei frammenti di ossa siano ciò che resta dei 43 giovani desaparecidos. Nonostante questo il responsabile della PGR si è esposto e ha reso pubblica parte dell’indagine in corso, dove si indica che i resti potrebbero appartenere ai normalisti. Murillo Karam non ha mai affermato che si tratta dei ragazzi ma la stampa messicana e internazionale ha trascritto e diffuso la notizia in questi termini.

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L’Ong Tlachinollan, che rappresenta i familiari dei 43 studenti, in un comunicato di qualche giorno fa afferma che i ritrovamenti non sono credibili e devono essere avallati da periti argentini. Il problema è che il governo, sventolando quei cadaveri sconosciuti davanti ai media, non è corretto nei confronti dei familiari dei desaparecidos. Quel che lascia perplessi, inoltre, è l’affermazione del rappresentante della Procura circa la totale estraneità dello Stato nel caso di sparizione forzata ed esecuzione extragiudiziale dei 43 giovani: “Iguala non è lo Stato messicano”, ha affermato Karam, insistendo sul fatto che non c’è responsabilità della catena di comando, a parte l’ovvia partecipazione della polizia municipale e del sindaco di Iguala e sua moglie María de los Ángeles Pineda, arrestati come unici mandanti il 4 novembre a Città del Messico.

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Non è però della stessa opinione il generale di brigata dell’Esercito messicano, José Francisco Gallardo, ex prigioniero politico e difensore dei diritti umani: “Da quando è successo il fattaccio io ho subito detto: questo è stato l’esercito, hanno usato una tattica militare”. Secondo Gallardo la manovra eseguita a Iguala ha tutti i connotati delle azioni militari anti-guerriglia.

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I familiari delle vittime con enormi sforzi cercano di far luce sulla questione e sono riusciti a far leggere al presidente Peña Nieto una dichiarazione in cui si esige il rispetto della dignità delle scuole normali rurali e la formazione di una commissione mista per proseguire l’investigazione. Per il momento però non è stato compiuto nessuno degli accordi presi con i familiari e tutto fa pensare che il caso sia chiuso. "Basta, non vogliamo più violenza né morti, non vogliamo più desaparecidos né dolore e vergogna". Queste le parole dei vescovi del Messico nel corso di un assemblea plenaria, dopo il forte appello nell’udienza generale di domenica fatto dal Papa, che ha ricordato di essere "particolarmente vicino in questo momento doloroso della sparizione dei ragazzi messicani che ora sappiamo assassinati".

Ma la storia dei morti, dei desaparecidos, è una storia vecchia che il Messico conosce bene.

Giacomo Giuseppe Marcario

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