LA SPOSA DI BUDDHA
CAPITOLO VII - I FIGLI DELLE STELLE

Marsela fingeva di non capire i miei discorsi. Si sedeva accanto a me, in un angolino del mio letto, lieta di farmi compagnia. Mentre si accingeva a raccontarmi una storia nuova, mi accarezzava i capelli, certa di poter esorcizzare la mie paure.
“C’era una volta una stella d’argento, che innamoratasi perdutamente di un bellissimo cavallo bianco, scese sulla terra e lo amò per una notte intera. Dalla loro unione nacquero due gemelli. I due bambini erano esseri speciali, poiché appartenevano allo stesso modo al cielo e alla terra. Le due creature, appena partorite da madre stella, furono lanciate sulla terra, precipitando in posti diversi. Poth, appena nato, aveva le dimensioni e le caratteristiche fisiche di un ragazzino di otto anni. Fu trovato in un prato una mattina di primavera, nudo ed impaurito, mentre si guardava attorno con espressione smarrita. Un brav’uomo, un cacciatore che passava di là con il suo cane, lo raccolse e, coprendolo con la sua giacca, lo condusse nella sua grande casa. Il bambino era davvero bello: la sua pelle era pallida come la luna, ed i suoi capelli ricci, lunghi e di colore argento; gli occhi intensi, grandi e neri, erano profondi e freddi come le notti d’inverno. Poth era un bambino singolare, sicché il suo corpo pareva cristallo, incapace di stare sui piedi tanto che, quando provava a camminare, ondeggiava e sembrava danzasse. L’uomo, di nome Lemar, viveva con la sorella Marta e un grosso cane di nome Nerone; i due decisero che avrebbero fatto qualunque cosa per aiutare la creatura, che pareva essere un dono del cielo. Poth comunicava con gesti e suoni gutturali, e si sentiva a proprio agio solo con il grosso cane, con cui era nata una bella intesa. La sua vita trascorreva tra sollecitazioni e paterni rimproveri di Lemar, e il ragazzo si impegnava a comportarsi correttamente. Non sempre ci riusciva, però era bravo ad imitare i comportamenti altrui, e apprendeva rapidamente. Mangiare, bere, vestirsi, lavarsi e persino parlare.
Poth aveva una grande capacità di raccogliere le informazioni utili a ripetere le azioni altrui, e quando inizialmente gli pareva difficoltoso, dopo averlo elaborato, lo emulava alla perfezione. Il ragazzo non dormiva mai, e la notte guardava spesso verso il cielo, e contava tutte le stelle fino a quando albeggiava. Per questo, al paese lo chiamavano “Figlio delle stelle”. Egli aveva il pregio di aiutare chiunque, e aveva un forte senso del dovere, ma con la particolare caratteristica di essere freddo come le stelle, e si comportava bene solo perché osservava le regole di chi lo educava. In realtà, pur non essendo cattivo, non era dotato di una sensibilità umana. Aveva però un forte intuito ed un’ottima memoria.
Da un’altra parte della contea cresceva Ruth, la creatura gemella di Poth, identica a lui fisicamente, ma diversa in animo. La giovinetta stava in piedi correttamente, si esprimeva in più lingue, ne conosceva sette; era una bimba speciale, buona e a volte tanto triste perché non conosceva la sua provenienza e voleva una famiglia vera, una mamma ed un papà come tutti gli altri bambini. Ruth fu trovata una mattina in una stalla vicino ad un convento, nuda e spaventata tra i cavalli. Fu raccolta da uno stalliere e consegnata alle suore del vicino convento. Le suore furono ben felici di ospitare la bimba e la considerarono un dono del cielo. Le monache le impartirono delle regole di buona vita cristiana. Ruth cresceva forte e sana, ma ogni tanto tornava nella stalla, e si sentiva come se la sua casa fosse lì. La ragazza guardava spesso verso il cielo, quando la notte, mentre tutti dormivano, contava le stelle aspettando che fosse l’alba. Ella aveva imparato, come faceva anche Poth, a chiudere gli occhi e perdendosi nei pensieri, cercava un mondo che gli umani chiamano sogno. In questo luogo che è lontano dalla terra e dal cielo, incontrava l’altra parte di sé, Poth; insieme, i due si fondevano divenendo un’unica creatura fatta di regole matematiche, di logica e di cuore. L’unione era perfetta, e i due ragazzi erano felici solo quando il loro sogno era all’unisono. Ruth, crescendo, diventò una religiosa e indossò l’abito. Era il 1400 e il paese in cui vivevano i due giovani era un posto meraviglioso, dove tutto era florido e le genti felici.
Giunse in questo posto Neith, uno spirito maligno che, innamoratosi della bella Ruth e da lei respinto, la trasformò in una mostruosa creatura che chiamò Miseria; Neith si adirò anche contro Poth, che tramutò in un orrendo e zoppo ragazzino, che chiamò Ignoranza. Il maligno Neith li costrinse a stare sempre insieme, e a vagare per la contea di giorno e di notte senza tregua, per un lunghissimo tempo. Le due creature erano vittime del disprezzo della gente, che li scansava e detestava. Il paese, a causa della presenza di Miseria e Ignoranza, fu devastato e per circa due secoli furono lutti e disastri. Madre Stella d’argento da lassù guardava e soffriva. Stanca di questa situazione, precipitò sulla terra e fece luce su tutti. Uccise Miseria e Ignoranza, e sciolse l’incantesimo, restituendo alla contea il suo antico splendore”.
"Questo racconto mi fa pensare alla biga alata trainata da un auriga che è la ragione, costretto a controllare le intemperanze di due cavalli: quello nobile, ovvero l’anima irascibile, e quello inferiore dell’anima appetibile..." dico io, dopo aver ascoltato in silenzio.
“L’anima, che deve servire due padroni sempre, fino alla fine - risponde mia madre, che non conosce Platone - l’anima, che divide l’uomo tra passione ed emozione, quali mali inguaribili, ma non scindibili”.
“Il dualismo tra ragione e passione di ogni uomo ha condizionato l’educazione di ciascuno di noi - le dico alzando il tono della conversazione - gli occidentali dal passato ad oggi, hanno preferito dare un ruolo prioritario alla razionalità piuttosto che alla corporeità, pur tuttavia rimanendo profondamente emotivi. Ecco perché, indossiamo i calzari e le vesti”, mentre mi sfilo i sandali in segno di protesta lanciandoli in fondo al letto, e mi metto a girare nella stanza, improvviso la danza del ventre.
Mia madre ride divertita e conosco il suo pensiero: “Sei tanto passionale cara figliola. Proprio quanto me”.
SIMMIA E SOCRATE
Questa sera il mio amico dottore mi ha portato a teatro. In verità, si tratta di una recitazione di studenti del liceo classico, e il teatro è una sala della scuola. I ragazzi si discostano da me, distanziandosi dalla sedia a rotelle su cui sono seduta con segno di rispetto, e mi fanno spazio. Io, dopo aver ben coperto con un plaid azzurro le mie gambe, sono felice di assistere allo spettacolo che, ironia della sorte, recita di Simmia e Socrate, uno spaccato sulla teoria dei filosofi sulla morte, firmato da Platone.
“Tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione, non è altra se non quella di morire, e di essere morti. E se questo è vero, sarebbe veramente assurdo per tutta la vita non curarsi d’altro che della morte, addolorarsi di ciò che da tanto tempo si desiderava, e di cui ci si osserva tanta cura”.
Simmia: “Io penso che le persone, se sentissero dire questo, penserebbero che sia davvero ben detto dei filosofi, ossia che essi sono veramente dei moribondi”.
Socrate: “E direbbe la verità, certo! Però non è vero, che la gente se ne sia accorta. Infatti non si è accorta in che senso i veri filosofi siano dei moribondi. Ragioniamo, dunque tra noi, e lasciamo perdere gli altri. Riteniamo noi che la morte sia qualche cosa?”.
“Certo”, disse Simmia.
Socrate: “Riteniamo che la morte non sia altro che una separazione dell’anima dal corpo? E che essere morto, non sia altro che questo: da un lato, l’essere il corpo, separatosi dall’anima, da sé solo, e dall’altro, l’essere l’anima, separatasi dal corpo, da sé sola? O dobbiamo ritenere che la morte, sia qualcos’altro e non questo?”.
“No, è questo”, disse Simmia.
Socrate: “Guarda, ora, o carissimo, se anche tu sei del mio parere; infatti, da quello che ora diremo, penso, risulterà chiaro ciò che noi ricerchiamo. Ti pare che sia degno di un filosofo, avere cura dei piaceri di questo tipo, vale a dire dei cibi e delle bevande?”.
“Assolutamente no, o Socrate”, disse Simmia.
“E allora, non è evidente, innanzi tutto, che il filosofo, diversamente dagli altri uomini, per quanto riguarda questo genere di cose, cerchi di liberare l’anima dal corpo, quanto più gli è possibile?”.
“É chiaro”.
“E la gente, poi, o Simmia, crede che, per colui che di tali cose non gode e non partecipa, non valga la pena di vivere, e che colui che non si cura dei piaceri che si hanno per mezzo del corpo, tenda, in certo senso, a star vicino alla morte?”.
“Verissimo quello che dici, Socrate”.
“Orbene, è necessario – disse Socrate – in base a queste cose, che nei veri filosofi si formi un’opinione di questo tipo, di guisa che, ragionando fra loro, dicano all’incirca che pare ci sia un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento, direttamente alla seguente considerazione: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, non raggiungeremo mai in modo adeguato, quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Infatti, il corpo ci procura innumerevoli preoccupazioni per la necessità del nutrimento; e poi le malattie, quando ci piombano addosso, ci impediscono la ricerca dell’essere. Inoltre, esso ci riempie di amori, di passioni, di paure, di fantasmi di ogni genere e di molte vanità, di guisa che, come suole dirsi, veramente, per colpa sua, non ci è neppure possibile pensare in modo sicuro ad alcuna cosa. In effetti, guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro, se non dal corpo e dalle sue passioni. Tutte le guerre si originano per brama di ricchezze, e le ricchezze noi dobbiamo di necessità procacciarcele a causa del corpo, in quanto siamo asserviti alla cura del corpo. E così noi non troviamo il tempo per occuparci della filosofia, per tutte queste ragioni. E la cosa peggiore di tutte è che, se riusciamo ad avere dal corpo un momento di tregua, e riusciamo a rivolgerci alla ricerca di qualche cosa, ecco che, improvvisamente, esso si caccia in mezzo alle nostre ricerche e, dovunque, provoca turbamento e confusione. In ultimo ci stordisce e, per colpa sua, noi non possiamo vedere il vero. Ma risulta veramente chiaro che se mai vogliamo vedere qualcosa nella sua purezza, dobbiamo staccarci dal corpo e guardare con la sola anima le cose in se medesime”.
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