LA SPOSA DI BUDDHA

CAPITOLO VIII - LE LANTERNE

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Posso spostarmi con la coscienza dal corpo fisico all’astrale, percependo i due mondi. Adesso seguo le lanterne: ottenendo così la continuità della mia coscienza, non subisco l’oblio della morte. Dismetto semplicemente il mio abito corporeo, indossandone uno nuovo.

“Randa, dimmi: Che cosa rappresenta per te lasciare questo posto?”

“Morireè iniziare un viaggio per raggiungere la vita eterna”.

Lo ascolto affascinata, e mentre l’amico dottore mi parla con voce rassicurante, lo immagino con l’abito talare, su un altare assorto nella messa domenicale, con il coro dei bambini a destra e le pie donne inginocchiate a sinistra, nella piccola chiesa, in segno di pentimento e di riconciliazione con il divino.

Dio era là a tenermi la mano e a rassicurarmi che ci sarebbe sempre stato. E una parte di me pensava al Buddha, da solo seduto sotto l’albero alla ricerca dell’illuminazione, impegnato a tenere lontani da sé Mara e le sue tre figliole.

Non parlo di Buddha con il mio amico, ma concludo il mio pensiero asserendo che Dio, secondo me, si ponesse verso il defunto in veste di giudice: Quello che spetta al defunto, che riceve fin dal momento della morte nella sua anima immortale, è la retribuzione eterna, un giudizio particolare, che mette la sua vita in rapporto a Cristo. Il defunto passerà attraverso un tunnel che conduce verso una purificazione, o entrerà nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre” proferisco con tono sarcastico.

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“Non è proprio così” risponde il mio amico.

“Non c’è nessun tunnel della morte. Tra la morte del cristiano e la vista di Dio, l’incontro è immediato, in attesa del giudizio universale” aggiungendo queste parole, il mio dottore mi riconduce nella stanza d’ospedale, accarezzandomi la fronte come si fa con i bambini, un po’ contrariato. Ed io sento la calda carezza della sua mano, consapevole di quanto amassi questo uomo ostinato, e quanto lui invece amasse il suo Dio.

“Una persona tende a morire come è vissuta”. Questa frase, detta da mia madre qualche tempo prima, riecheggiava quella notte insonne nei miei pensieri.

La mia vita è stata sempre un cammino verso la fede, ma non sarò mai preparata ad accettare il momento ultimo della mia esistenza terrena, come il definitivo abbandono, confidente nelle mani accoglienti di un angelo di luce, in attesa di contemplare faccia a faccia il volto divino. Questa è la cosa più bella che mi possa accadere: contemplare faccia a faccia quel volto, vederlo come lui è, pieno di luce, pieno di amore, pieno di tenerezza. Mi sono sempre chiesta di chi sarebbe stato il volto di luce che avrei visto quando sarei andata in un altro mondo. Quella sera, però, non ero pronta a morire. Sinceramente, avrei gradito vedere i volti degli angioletti felici giocare tra nuvolette rosa, semmai, tanto per non offendere né Buddha né Dio.

I BAMBINI DI STRADA

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“Nabhila, raccontaci una storia” mi dice Pilaf mentre raccoglie bottiglie di plastica nella discarica, poco distante dalla casa dei bambini. Io come altri bambini raccolgo le bottiglie. Questo è il nostro lavoro, quando non andiamo a scuola. Ed io, ben felice di fargli compagnia, gli menziono di un eroe nazionale, Stregone Dolce, che fu anche profeta e mise in guardia il suo popolo contro gli uomini barbuti di pelle chiara.
Pilaf, mentre io parlo, non si ferma a guardarmi, seppur mi ascolti, e continua a cercare tra rifiuti di ogni genere qualunque oggetto fatto di plastica, che rappresenta il nostro pane. Randa, che è anche lui con noi, finora rimasto in silenzio, si avvicina perché interessato ad ascoltare il racconto. Adesso parla lui, tirandomi i capelli per farmi stare zitta. “Nei miti di alcune tribù indiane del Nord America, i primi animali sulla terra erano simili agli esseri umani, per dimensioni e per intelligenza, parlavano il loro stesso linguaggio e spesso assumevano anche forma di persone. Per qualche ignota ragione, i primi animali scomparvero, e furono sostituiti da quelli che conosciamo adesso. Molto tempo prima che gli europei giungessero in America, quasi tutte le tribù avevano creato leggende su eroi nazionali, molte di esse basate sulle imprese di personaggi reali.”

“E’ vero, - aggiungo io - questi eroi risalgono a molti secoli addietro e, come gli antichi eroi del mito classico, sono loro attribuiti fatti e capacità prodigiosi. Essi salvarono i loro popoli da catastrofi e spesso furono gli autori dell’organizzazione sociale e politica delle tribù”.

Adesso Pilaf scuote la testa e ci chiede di raccontare dei Cani Guerrieri. “Una delle leggende eroiche, è quella di Stregone Dolce che portò agli Cheyenne le quattro frecce sacre, e che istituì la società di guerrieri della tribù, fra cui quella famosa dei Cani Guerrieri” concluse Randa, orgoglioso di essere il maestro più bravo e informato di tutti. Alzando le braccia al cielo, infine, prese a gridare, come facevano gli antichi indiani improvvisando una danza.

Un battito di ciglia e mi ritrovo a scuola, facendo un salto di vent’anni. Mi rivedo in aula con i miei bambini italiani, e facciamo un dettato. Titolo: “I Navajo e i lupi”.

I Navajo temono fortemente gli "skinwalkers", lupi umani che vivono nei villaggi. Lasciano cadere delle polveri magiche attraverso i camini delle case e, una volta dentro le abitazioni, infilzano le loro vittime con bastoni appuntiti. I Navajo utilizzano rimedi semplici per difendersi dalle stregonerie, come bastoni per dire le preghiere, medicine preparate dalla bile di aquila, di orso, di moffetta o di puma, polline di grano ed erbe di vario tipo. Gli stregoni Navajo celebrano delle cerimonie per impedire il ritorno del diavolo nella strega.

I PIEDI SCALZI

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Mia sorella Benedetta, prima di partire, mi aveva avvisata: A Taormina, le persone vanno in giro con i piedi scalzi (non tutti, in realtà. Ma se ne vede ancora qualcuno e lei, ovviamente). Io stentavo a crederci, perché mia sorella generalmente aveva la tendenza ad esagerare per rendermi l’idea più chiara; questa volta, però, aveva ragione. In questo posto vedi tanti piedi scalzi, soprattutto i bambini. Io mi sono immediatamente immedesimata, sicché ho preso a camminare scalza in casa e in strada, in prossimità del mare.

Passeggiamo Benedetta ed io per il corso di Taormina. Sono attratta dalle vetrine dei negozi di ceramiche. Tra soli di terracotta, collanine, rosari, orecchini, tazzine, piatti preziosi e colorati, omaggio alle bellezze della sicilianità, mi incuriosisce in particolare una serie di vasi di ceramica raffiguranti le teste di moro di Caltagirone. Benedetta mi spiega che la Sicilia vanta generazioni di artigiani e di artisti che, nel tempo, hanno dato vita alla fantasia nel riprodurre opere in ceramica, legate a civiltà remote che rievocano gli antichi splendori di questa terra, crocevia di popoli. Anche le piante nei balconi fioriti hanno le sembianze di una testa di moro, già vista nella mia passeggiata lungo corso Umberto. Mi racconta una curiosa leggenda e, mentre parla, diventa la giovane donna innamorata del moro che aveva - come quasi tutti gli uomini di ogni epoca, credo - due amanti allo stesso tempo.

“Melina, questo era il suo nome, amava dedicarsi alle letture, alle piante, ai fiori. Tutto il giorno curava le piante del suo balcone, che era bellissimo e sempre fiorito anche d’inverno. Un giorno come tanti, passò dal quartiere Kalsa un giovane moro che, vedendola tanto bella, si fermò incantato ad ammirarla. Le chiese di potersi rifocillare, poiché egli aveva molto cavalcato ed era stanco. Il moro era davvero bellissimo: i suoi occhi scuri e profondi sembravano sinceri, ed il suo sorriso era una promessa d’amore. La giovane donna rimase affascinata dalla voce calda e straniera del giovane, e lo ospitò con molto piacere. Il moro entrò in casa e prese a corteggiarla. Melina rimase ad ascoltarlo per ore, fino al calare della sera. La mattina seguente la svegliò il canto degli uccelli, e accanto a sé il giovane dormiva a lei abbracciato. Quell’uomo prese subito il suo cuore e tutte le sue attenzioni. Ella presto se ne innamorò perdutamente e fu sua, senza fare troppe domande. La giovane fiorì come un giardino a primavera. Adesso era ancor più bella, di quella bellezza che solo l’amore sapeva attribuire. Melina sorrideva sempre, e il giovane ricambiava compiaciuto. Ogni tanto Tari spariva con il suo cavallo bianco; partiva all’alba e tornava qualche tempo dopo, e c’era sempre il sorriso della giovinetta ad aspettarlo. Quella di Melina era ormai anche la sua casa, ed insieme i due stavano proprio bene. Durante una lunga assenza di Tari, la bella si ritrovò ad interrogarsi se il suo cavaliere avesse un’altra donna o se amasse solo lei. Poiché era una donna d’onore, anche se innamorata in cuor suo pretendeva la verità. Il cavaliere dagli occhi della notte tornò una mattina e c’era come sempre al suo ritorno il sole splendente, tutto intorno era fiorito. La bella corse incontro al moro, risoluta a conoscere la verità. Alle sue domande, l’uomo rispose di avere in una moglie e due bambini e che presto sarebbe dovuto partire in Arabia, per tornare da loro. Un triste giorno che faceva freddo, Tari partì e lasciò Melina da sola per molte stagioni.

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La donna attese pazientemente che il moro tornasse. Finalmente tornò la primavera e con essa anche Tari, il quale giunse al quartiere come sempre galante, premuroso e di lei innamorato. Melina lo accolse a braccia aperte, come sempre.

Lo amò un’ultima notte ancora. Dopo essersi accertata che il Moro dormisse, lo uccise tagliandogli la testa. Dalla testa realizzò un vaso in cui piantò il basilico, che mise in bella mostra nel balcone. Il Moro rimase per sempre con lei. La pianta, innaffiata ogni mattina con le lacrime della donna, crebbe rigogliosa. Tutti gli abitanti della Kalsa, invidiosi del bellissimo balcone di Melina, fecero realizzare dagli artigiani del posto il vaso a forma di testa di moro, da tenere esposto in ogni balcone del quartiere arabo, rendendo così leggendario e inesauribile l’amore dei due giovani amanti”.

Susy Tolomeo

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