LINGUAGGIO NELLA COMUNICAZIONE
Quanto conta la retorica?

Una delle peculiarità dell’uomo sta nell’ aver sviluppato un’abilità linguistica che, nel corso della sua evoluzione, gli ha permesso di superare taluni vincoli biologici che avrebbero potuto mettere a rischio la sua sopravvivenza.
La possibilità di comunicare rappresenta un vantaggio dal punto di vista evolutivo: si pensi al potere dell’insegnamento e della trasmissione di conoscenze, attraverso il quale un individuo può mettere in guardia un proprio simile evitando così che quest’ultimo debba sperimentare sulla propria pelle i pericoli derivanti da un dato comportamento.
Comunicare, tuttavia, non significa solamente trasferire informazioni da una mente all’altra. Al centro di ogni attività linguistica vi è, infatti, un’intenzione di esporre/imporre le proprie idee a un altro uomo. Noi abbiamo bisogno di convincere gli altri della bontà del nostro pensiero e abbiamo anche bisogno di lasciarci persuadere.
Fin dall’epoca classica si è discusso sul ruolo e sulle caratteristiche del discorso persuasivo. Basti pensare alla Retorica di Aristotele, un’opera che si presenta come una teoria del discorso persuasivo. Il filosofo greco considerava la retorica come la «capacità di scoprire ciò che può risultare persuasivo in ogni argomento». La retorica, per Aristotele, era un’arte, una tecnica che poteva esser studiata e appresa. Tuttavia, essa era considerata anche un’abilità innata per cui, senza necessariamente studiare la disciplina, era possibile comunque comunicare in modo persuasivo. Già in Aristotele, quindi, sembra delinearsi il profilo dell’uomo inteso come persuasore naturale.
La Retorica aristotelica si presentava come un supporto teorico al quale fare ricorso per affinare le proprie congenite capacità persuasive; o meglio, la Retorica si prefiggeva di individuare un metodo applicato alla comunicazione persuasiva.
Per spiegare il valore evolutivo della persuasione e il fatto che questa è un’abilità innata e naturale, sarà opportuno riflettere sul ruolo che in essa giocano le emozioni. Attraverso una riflessione sulla persuasione e sulle emozioni, si vuole qui ridimensionare (fino, forse, ad annullarla) la distanza tra passione e ragione, tra persuasione e verità. Quel che si vuole chiarire è il rapporto inscindibile tra queste peculiarità naturali dell’homo-rhetoricus, evidenziandone la componente biologica e psicologica.
Nonostante sia possibile sfruttare il linguaggio per scopi molto diversi l’uno dall’altro, la comunicazione umana (a parte rarissime eccezioni) ha sempre un carattere persuasivo. L’intenzione e insieme la necessità di farci comprendere e accettare (dal prossimo, ma anche da noi stessi, attraverso il dialogo interiore) hanno fatto sì che il linguaggio umano sia nato e si sia evoluto per comunicare e persuadere.
«Parlare per persuadere (gli altri, ma anche noi stessi) è un’attività naturale e spontanea», che l’animale umano sviluppa insieme all’acquisizione del linguaggio. Per mezzo delle parole, riusciamo a comunicare e, quindi, a trasferire informazioni. Tuttavia, le funzioni del linguaggio non si esauriscono sul piano informativo: le parole servono anche, e soprattutto, a modificare i pensieri altrui, a farne cambiare opinione, a giustificarci o ad accusare qualcuno. Linguaggio e persuasione sono due peculiarità umane altamente connesse.
È naturale tanto l’uso del linguaggio informativo quanto quello del linguaggio persuasivo. Queste due componenti dell’abilità linguistica umana, però, non dovrebbero essere considerate come distinte o alternative: hanno entrambe un importante valore evolutivo e sono compresenti in quasi tutte le manifestazioni linguistiche. È, infatti, attraverso il linguaggio persuasivo (o attraverso quello comunicativo inteso come semplice scambio di informazioni) che possiamo difenderci da un’accusa senza ricorrere necessariamente allo scontro fisico; allo stesso modo, il trasmettere un’informazione può evitare al destinatario della stessa l’esposizione ad un fattore che potrebbe per lui rivelarsi potenzialmente dannoso.
Il rischio che si corre nel considerare come nettamente separati gli aspetti del linguaggio informativo e del linguaggio persuasivo consiste nell’illusoria opposizione tra persuasione e verità: il linguaggio informativo sarebbe il solo deputato alla descrizione e alla trasmissione della verità, mentre l’unico scopo della persuasione sarebbe quello di convincere, e quindi di sconfiggere con le proprie idee le opinioni degli altri.
Il ruolo della persuasione è, in realtà, più complesso. Basti considerare gli usi strettamente informativi del linguaggio rappresentano un fenomeno marginale: anche il professore, mentre insegna la materia ai propri studenti, ricorre a delle tecniche persuasive che possono riguardare tanto la disposizione degli argomenti quanto la cura del proprio linguaggio. Il professore non mira, di norma, a sopraffare le opinioni dei propri studenti, ma ricorre, in maniera più o meno consapevole, alla retorica per catturare la loro attenzione.
L’esempio del professore è particolarmente vantaggioso al fine di smentire la presunta opposizione tra linguaggio informativo e persuasivo: questi inevitabilmente coesistono. Infatti, gli elementi costitutivi del discorso andrebbero concepiti come fasi; e la fase argomentativa, in un contesto persuasivo, può risultare decisiva (o viceversa). Aristotele nella Retorica distinse diverse fasi del discorso retorico, le quali dovevano essere necessariamente considerate come unitarie. Questa disciplina, nel corso dei secoli, ha subìto significative trasformazioni che l’hanno privata di alcune delle sue fasi, fino a ridurla essenzialmente alla sola elocutio.
«Se si parla, non è possibile non fare retorica»
Per Aristotele, la retorica è intesa come «la capacità di scoprire ciò che può risultare persuasivo in ogni argomento». Questa disciplina di fatto si occupava di tutte le fasi di elaborazione di un discorso: fasi che venivano analizzate al fine di ricavare una teoria di riferimento per chi intendesse ottenere la massima efficacia persuasiva presso il suo pubblico. Non è un caso, quindi, che quest’arte fosse oggetto di studio imprescindibile per gli uomini del foro e della politica.
Le fasi di produzione del discorso, grazie anche ai contributi apportati dai Romani alla disciplina retorica, riguardavano cinque stadi fondamentali: inventio (fase di ricerca degli argomenti), dispositio (fase di organizzazione degli argomenti all’interno del discorso), elocutio (fase di cura dell’elaborazione linguistica), actio (fase dedicata agli aspetti recitativi) e memoria (consistente in un insieme di tecniche mnemoniche che permettono all’oratore di non dimenticare alcuni passaggi).
Queste fasi erano concepite nella retorica classica come fondamentali. Nel tempo la distinzione tra dialettica e retorica, tra linguaggio argomentativo e persuasivo, ha perso l’originario carattere anche se nel discorso il rapporto con l’interlocutore resta fondamentalmente retorico. Quando, ad esempio, il professore si rivolge a un pubblico adulto e competente egli è costretto a ricorrere a espedienti retorici: oltre alla ricerca e disposizione degli argomenti, il professore curerà l’elocutio, nel senso che valuterà la giusta commistione tra linguaggio tecnico e colloquiale, tra definizioni e figure. Tralasciando la fase mnemonica, anche l’actio è un espediente retorico: l’intonazione, le pause, la mimica facciale, le gesticolazioni caratterizzano i nostri discorsi, anche se non vi è una pianificazione dietro. Pertanto, anche il discorso scientifico o dialettico difficilmente possono privarsi degli espedienti retorici.
Non va dimenticato che la retorica è un’arte, una tecnica che si apprende e che può essere studiata, ma è allo stesso tempo una caratteristica naturale degli esseri umani. L’uomo, pertanto, ha una disposizione di fondo, un’inclinazione naturale verso il linguaggio retorico. Siamo tutti, chi più e chi meno, dei retori e non è necessario studiare retorica per impostare un discorso retorico. Cercare anche inconsciamente di elaborare un linguaggio efficace è vantaggioso per la nostra stessa sopravvivenza. E la persuasione, al contrario della mera dimostrazione, permette di risparmiare tempo ed energie (una dimostrazione, sebbene contenga il vero, non sempre è recepibile da chi ascolta e non sempre si mostra come evidenza).
Quanto detto potrebbe far nascere una plausibile domanda: è possibile allora concepire il linguaggio umano come essenzialmente retorico? Francesca Piazza (Linguaggio persuasione e verità – La retorica nel Novecento, Carocci editore, 2020, p. 142) afferma che «se si parla, non è possibile non fare retorica»? Dal mio punto di vista, considerata la retorica in questi termini, l’elaborazione di un discorso, di qualsiasi natura, richiede un processo retorico. Tuttavia, esistono anche usi estremamente marginali del linguaggio che non è possibile ricondurre alla retorica. Mi riferisco, ad esempio, alle risposte monosillabiche, le quali presuppongono un uso del linguaggio, ma che non possono essere propriamente definite in termini di ‘discorso’. Un altro esempio può riguardare la segnaletica o alcune tipologie di scritte descrittive o prescrittive.
Se consideriamo la persuasione una caratteristica naturale dell’uomo, che ha un fondamento biologico, e se accettiamo l’idea secondo la quale l’uomo è un persuasore naturale e la comunicazione è naturalmente persuasiva, allora inevitabilmente ogni discorso, di qualsiasi natura, ha una base retorica. Questo non vuol dire che la retorica sia più importante della dialettica o della poetica o di qualsiasi altro tipo di discorso ma solo che la retorica è una componente essenziale di qualsiasi discorso ed è la base da cui originano differenti specializzazioni.
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