La festa dei Santi Medici e la chiesa di San Giovanni

Tratto dal libro " Da quel balcone dei miei ricordi…"

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cms_19110/1.jpgTra le tante feste, oltre alla Pasqua e la Pasquetta e la gita fuori porta come si faceva in passato, c’era una festa molto importante per noi di piazza San Giovanni ma anche per il resto della città ed era la festa dei Santi Medici. La processione partiva proprio dalla chiesa di San Giovanni, di stile romanico pugliese, con in alto, proprio sull’ingresso, la statua di San Giovanni. Come ho già raccontato, l’interno era stato rifatto nel tempo in stile barocco a cassettone, un incendio ne aveva lasciato soltanto quello che era il tufo originario, le colonne, la navata centrale, le due laterali e tutta una simbologia legata ai templari: draghetti, serpenti, edera. Nella chiesa c’era un altare barocco con dietro un vecchio coro di ebano. Quando ci fu il Concilio Vaticano II decisero di cambiare il modo di celebrare la messa, per cui l’altare sparì sostituendolo con uno normale, ora c’è una specie di tavola davanti di pietra moderna ma dell’altare così bello che io ricordo non c’è traccia, non si è saputo più niente.

Quando arrivava la festa dei Santi Medici tutte le persone, le donne specialmente, mettevano ai loro balconi esposte le coperte più belle, ricordo mia madre metteva una coperta di seta rosa in onore dei Santi che passavano sotto.

La processione era molto semplice: partivano dalla chiesa di San Giovanni, passavano per via San Rocco e per l’ospedale di San Rocco, poi andavano giù per i Sassi e risalivano per la fine di via San Biagio, all’imbocco della salita del cinema Quinto. Per il ritorno, riscendevano da via San Biagio e rientravano.

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Durante la processione i fedeli si posizionavano nella piazzetta per guardare scoppiettare dei fuochi molto semplici, i triccheballacche, nella scalinata della chiesa di Sant’Anna.

Un anno, vestito da chierichetto, portai la croce di legno nella processione, e dato che pesava, io piccolino non ce la facevo a portarla, mi dovevo fermare ogni tanto e con me tutte le persone che camminavano dietro. Un altro anno, feci sempre il chierichetto, era Pasqua. Il giorno della lavanda dei piedi venne l’arcivescovo ed io dovevo portare la croce dietro di lui, essendo piccolino la tunica mi andava lunga e mia mamma l’appuntò con una spilla da balio. Il caso volle che mentre l’arcivescovo si dirigeva dalla sacrestia alla navata centrale, la spilla si staccò ed io inciampai facendo cadere la croce in testa all’arcivescovo che mi disse “figlio mio, Marcellino pane e vino, ma hai le gambe di ricotta?” e tutti scoppiarono a ridere. Da quel giorno non mi fecero più fare il chierichetto e non portai più la croce.

Don Raffaele ci teneva tantissimo a me che ero così bellino. Mi chiamavano anche “Marcellino pane e vino” perché assomigliavo molto a quel bambino del film ed ero buono come lui, pensavo, molte volte, di togliere dalla fronte di Gesù la spina che gli feriva la fronte.

Per Don Raffaele Fontanarosa ero la mascotte della chiesa, durante le messe mi voleva accanto a lui ed io, vestito da chierichetto, ci andavo ben volentieri, non solo in parrocchia, ma anche nella sala laterale dove i bambini si riunivano per giocare.

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La chiesa di San Giovanni ha avuto sempre grande importanza per me e per tutti i preti che si sono susseguiti dopo Don Raffaele Fontanarosa che, tra l’altro, era anche zio di una mia amica di giochi Gilda e di altri miei amici, figli dei Porcari. In particolare, con uno dei suoi nipoti sono amico tutt’ora, si chiama Don Damiano Fontanarosa, anche lui è parroco della chiesa di Santa Lucia.

Dopo Don Raffaele Fontanarosa arrivò Don Scandiffio. Era anche il mio professore di religione al liceo. Lo ricordo sempre con grande affetto, era soprannominato “pinguino” perché camminava con i piedi a papera, un po’ come i pinguini. Era basso, rosso in volto ma tanto simpatico, dolce e bravo. A noi studenti metteva sempre buoni voti.

In seguito, venne Don Mimì che purtroppo, oggi, non c’è più. Lui teneva molto alla festa dei Santi Medici. Era un prete un po’ sui generis.

Ricordo una volta, mentre ero in servizio, stavo lavorando, facevo il vigile urbano, vidi arrivare verso le tre e mezzo, quattro una processione che veniva da via XX Settembre, senza avere avuto alcuna notizia dal comando. Don Mimì aveva deciso di fare una processione e non aveva avvisato nessuno. Il traffico era in tilt, le macchine suonavano il clacson per far spostare le persone. A quel punto chiamai, con la radio, il comando e cercai di bloccare immediatamente il traffico per evitare il peggio.

Un’altra volta, invece, Don Mimì era andato in prefettura a chiedere i permessi per sparare i fuochi, aveva avuto questo primo incarico dalla parrocchia come segretario del vescovato. In prefettura gli chiesero i permessi della sovraintendenza, il tipo di spari e altri documenti in quanto i fuochi erano pericolosi ed era importante saperne i dettagli. Don Mimì non era molto bravo a gestire le scartoffie e si inalberò dicendo: “Allora sapete che c’è, io la festa non la faccio più”. L’impiegato, non materano, rispose: “Come volete padre, tanto io non sono nemmeno di Matera”. Comunque, la festa si fece lo stesso, si trattava solo di risolvere alcune pratiche burocratiche obbligatorie per mettere in sicurezza la gente durante gli spari.

Quando andai ad abitare, da sposato, in via Tommaso Stigliani, ci tenevo che Don Mimì venisse a benedire la casa. Ero scrupoloso a riguardo, volevo che benedisse perfino il bagno. Don Mimì mi regalava sempre qualche cosa: un quadretto o un libricino. Alla fine della benedizione si aspettava qualche soldino da me ma io gli stringevo solo la mano per ringraziarlo e in risposta la faccia non era delle migliori. A onor del vero, immediatamente, di nascosto, andavo nella chiesa di San Giovanni o anche nella chiesa di San Domenico e mettevo 10mila lire nella cassetta delle offerte. L’importante era che lui non lo doveva sapere. Don Mimì teneva molto alle offerte, ad esempio, a Natale quando fuori faceva molto freddo, la prima cosa che diceva prima della celebrazione della messa era: “sentite come è calda la mia chiesa, però, mi raccomando, donate qualcosa, la bolletta costa tanto”.

Altre volte, si arrabbiava con il parroco della chiesa di San Francesco di Paola perché la gente andava a sentire messa lì in quanto nel coro c’era una signora che sapeva suonare l’organo benissimo. Don Mimì litigò con l’altro parroco dicendo: “Tu mi porti via i miei parrocchiani, me li devi mandare indietro”.

Un’altra volta ci siamo sentiti telefonicamente. Insisteva sul fatto che mi incontrava spesso per il corso. Io gli dicevo che non uscivo mai perché ero e sono cieco e poi non mi sentivo tanto bene. Il giorno dopo, dovevo andare a comprare, insieme a mia moglie, un orologio parlante che davano in regalo con il giornale Panorama, avevo sentito la notizia per radio. Pensai di andare subito in edicola prima che le copie finissero e, manco a farlo di proposito, incontrai, in piazza Vittorio Veneto, proprio Don Mimì che subito mi disse “hai visto che esci!”.

Gli volevo un gran bene, l’ultima volta che l’ho sentito si era ricoverato per una brutta influenza e, dopo poco, è volato in cielo. Era uno di quei preti di una volta, di quelli di cui i libri ne parlano.

Ancora oggi, c’è qualcuno del suo stesso calibro: Don Angelo, Don Damiano, Don Cosimo, Don Michele, il parroco del quartiere Serra Venerdì. In tanti altri la vocazione è venuta meno. Invece, quando sento pregare i preti dei paesi dell’Africa mi stupisco perché sono capaci di trasmettere la loro fede in modo straordinario.

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La festa principale di piazza San Giovanni, come ho già detto, era la quella dei Santi Medici. Da bambino pensavo che i Santi Medici erano solo quelli di Matera perché durante la processione i fedeli si fermavano a pregare davanti a una casa, non tanto vecchia, non di tufo, e dicevano – lo ricordo bene – che quella era la casa dei Santi Medici. Quella non era la casa dei Santi Medici, da adulto ho scoperto che i Santi Medici erano centurioni romani di origine orientale e, nel Lazio, ci sono perfino due paesini che si chiamano Cosma e Damiano.

Vito Coviello

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