La ricerca della socialità perduta

Sui tetti va in onda l’ipocrita exit strategy di un popolo

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Abitudini di vita e percezione della realtà stravolte. Il mondo al tempo del virus viene ora visto attraverso una lenta dilatata e personalizzata ovvero sotto forma di schermi dal polliciaggio variabile. La diffusione senza precedenti di una quantità di informazioni provenienti da forme e fonti diverse è la caratterizzazione che definisce la nostra epoca di reclusi e felici: l’infodemia. Se tra decine di anni avremo modo di ricordare questi tempi, assoceremo la memoria del passato del virus con un’altrettanta e virulenta forma di infezione dal carattere all’apparenza meno contagioso ma, a differenza del covid-19, molto più diffuso: il contagio informativo. Molta informazione non vuol dire migliore informazione, vuol dire invece overload che pregiudica la possibilità di trasmettere, nel marasma di notizie presenti da ogni dove, istruzioni corrette e precise da adottare in tempo di emergenza. La proliferazione di notizie spesso infondate, incontrollate, imprecise e quindi fuorvianti per tutta la popolazione, rischia di creare caos su caos, perché la grandissima mole di informazioni presenti porta come conseguenza a rendere inutile i tentativi di spiegare con metodo scientifico e professionale ciò che sta realmente accadendo. Il bombardamento di news al quale siamo sottoposti ogni giorno (televisione, giornali, web, social media) ci rendono vulnerabili all’assalto di una circolazione subdola di fake news, capaci di farsi spazio nelle maglie del sovraffollamento informativo. Come se ciò non bastasse, noi stessi, utenti comuni, siamo soggetti iperproduttivi di informazione, prosumer incalliti già da tempo prima dell’emergenza sanitaria, oggi alla ricerca di spazi vergini precedentemente ancora immuni dal rumore di sottofondo e dalle chat continue del villaggio globale. Balconi, tetti, terrazzi, cortili diventano allora all’istante territori da violare per mandare messaggi, condividere contenuti, chattare, ovvero trasmettere, come ce ne fosse bisogno, tutto il repertorio socialmediatico che si trasferisce armi e bagagli in luoghi prima esenti dall’intrusione infodemica.

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Si creano community balconare per riempire, dicono, il senso di isolamento, come se le mura di casa fossero prigioni prive di svaghi, comodità, contatti, rapporti. All’improvviso sentiamo la necessità di rapportarci fisicamente all’altro, come se non avessimo fatto nient’altro prima del lockdown, come se quando camminavamo per strada o facevamo la spesa non fossimo attratti dallo smartphone, ma dalle persone. L’invasione di quelli che prima potevano essere considerati i non luoghi dei nostri domicili è iniziato in sordina; prima si è manifestata attraverso il piantare le bandiere di conquista di questi spazi prima a-connettivi con striscioni e lenzuola, poi il prontuario social è subito sceso in campo e l’hashtag “andrà tutto bene” si è impossessato dopo le vetrine dei negozi anche delle piattaforme digitali.

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Il mantra “restate a casa” (e relativo #iorestoacasa tamburellato sotto ogni commento e bacheca) ha poi giocato il ruolo più importante nel mantra collettivo perché ha definitivamente dato il via alle condivisioni balconare. Il tam tam social ha fatto da cassa di risonanza per fissare sui balconi il nuovo centro di aggregazione per famiglie in vena di far casino, solisti del flauto traverso, baritoni non compresi, menestrelli di cuori infranti, un insieme di performer sotto le luci di centinaia di smartphone che riprendevano e smistavano all’immensa platea globale terzine, endecasillabi, frasi sciolte e scale di do urbi et orbi contribuendo a ingolfare e rendere ancora più caotiche le autostrade informatiche. In questo caos di voci e suoni indistinti, non sono poi mancate sui gruppi whatsapp di tutti noi reclusi digitali, ormai must have per rimanere forzatamente in contatto, le sante messe e le omelie in diretta Facebook, con preti e prelati che tolta la tonaca da officianti hanno vestito senza indugio, e comprovata abilità, quella di video maker consumati e potenziali youtuber (nella vita non si sa mai); chi lo avrebbe detto che sacro e profano avrebbero stretto un’alleanza inedita grazie all’esercito della tecnologia smart e all’open source del web. L’invasione dei nostri corpi in nuovi spazi di socialità è stata subito derubricata da molta stampa in sollucchero da un’improvvisa ondata di avvenimenti su cui piantare le tende per un bel po’, come la voglia di esorcizzare la paura del momento, l’incertezza del futuro, l’ansia di non conoscere il nemico. Si tratta molto probabilmente invece di un tentativo di ritualizzare spazi e luoghi anomali, sottratti alla routine dell’homo videns, rimasti ancora fuori da quella necessità imperante di socializzare a tutti i costi, di produrre rumore e infrangere silenzi atavici. Non contenti di decine e decine forme di inquinamento prodotto, continuiamo indefessamente a produrre forme di comunicazione, un tentativo tardivo di riprendere le fila con l’altro, quell’altro che sino a ieri era l’estraneo, il vicino impiccione, la famiglia rumorosa. Cerchiamo di trasmettere con la costruzione di legami temporanei e balconari, le stesse modalità d’azione di mere e superficiali condivisioni di dispositivi emozionali e simbolici testati con successo e cum gaudio magno sulle piattaforme social, vere e proprie compagne di vite dal forte senso di apparenza

(foto di copertina P. Umbrico, Suns from Flickr, New York, 2008 - si ringrazia - interne dal web)

Andrea Alessandrino

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