L’AUTORAPPRESENTAZIONE FEMMINILE

Dall’antico “iconismo” al selfie

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Nella cultura antica, la figurazione del Sé si declina pérlopiù come firma apposta su un oggetto iconico, a rivendicarne l’autorialità. In epoca medievale l’inserimento del volto dell’autore continua la tradizione della firma che certifica la paternità dell’opera.

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Cleopatra

Ma lo status sociale dell’artista, che nel Medioevo è sostanzialmente equiparato all’artigiano, impedisce uno sviluppo autonomo del genere, che si avvierà solo con gli albori del Rinascimento.

In epoca rinascimentale, l’affermarsi dell’autoritratto come genere autonomo va di pari passo con i progressi tecnologici nella realizzazione di specchi piani.

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Artemisia Gentileschi (autoritratto)

La rivoluzione della rappresentazione del sé assume una precisa definizione nei feminist studies. I feminist studies si sono imposti dagli anni Settanta focalizzando la cultura dell’immagine sulla natura sempre affettivamente e sessualmente orientata dello sguardo rivolto alle immagini stesse e sul modo in cui determinate ideologie (in particolare l’ideologia patriarcale) riescono a codificare le proprie gerarchie, i propri orientamenti e le proprie fantasie erotiche nelle forme popolari di rappresentazione visiva, dando a queste stesse forme una parvenza di naturalità e di immutabilità. Ma è il macrogenere dell’autoritratto a costituire la classe più coinvolgente di autorappresentazione.

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Nel saggio Piacere visivo e cinema narrativo (1975), Laura Mulvey ha mostrato come il fascino del cinema classico hollywoodiano si sia fondato sulla distinzione netta tra due posizioni asimmetriche: la posizione attiva di chi guarda lo spettacolo – un pubblico concepito come prevalentemente maschile e come animato dalla ricerca di un piacere scopofilico e voyeuristico, il piacere di guardare senza essere visti – e la posizione passiva di chi è parte dello spettacolo ed è guardato – quella di attrici donne che sono messe in scena esplicitamente come oggetti di un desiderio erotico maschile.

Nei decenni successivi la pratica della raffigurazione del sé ha notevolmente risentito dello sviluppo camaleontico delle tecnologie connesse ai dispositivi fotografici – in primis la possibilità dell’autoscatto e dello scatto telecomandato – ampliò velocemente le opzioni dell’autorappresentazione.

È il selfie a costituire in questi ultimi anni un imponente fenomeno di massa relativo all’autorappresentazione.

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Fra le molteplici sue implicazioni, la diffusione planetaria della moda dei selfies solleva la questione di quello che è stato definito oversharing, ovvero il profluvio narcisistico di autorappresentazioni condivise. Nella possibilità di correggere la propria immagine grazie a programmi di editing facilmente accessibili c’è chi ha ravvisato non solo l’ennesimo caso di manipolazione della verità e di dissimulazione cosmetica, ma anche un ambito di autodeterminazione in cui i soggetti, autoregolamentandosi, si sottraggono alle forme istituzionali di irreggimentazione dei corpi, gestendo in autonomia il proprio edited-self.

È interessante un confronto fra Facebook e l’ambiente virtuale Second Life, che fino a pochi anni fa aveva suscitato numerosi entusiasmi in chi interpretava la possibilità di autopresentarsi socialmente in rete assumendo un’identità avatar che consentisse per così dire di vivere più vite, operando passaggi di gender, di personalità, di professione, di status sociale.

Il declino di Second Life contrasta col successo di Facebook, il che rivela che il desiderio più potente è non quello di agire undercover, bensì quello di metterci la faccia.

Elena Dorigano

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