MESSINA, 28 DICEMBRE 1908,ORE 5:20’27’’ (parte prima)

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Quest’articolo sulla tragedia peloritana è dedicato a chi ebbe la forza di rialzarsi. Come Antonina Hernandez – nonna della nostra Antonella Giordano – che perdette tutta la famiglia e, da orfana dodicenne, riuscì a rischiarare le tenebre e porre le basi per un’esistenza nuova, creando vita e generazioni baciate dal sole.

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L’araba fenice.

Non basta avere una croce d’oro bizantina nel proprio stemma per scongiurare i mali e le rovine che il destino riserva, né serve pensare che la bellezza vada assaporata eternamente, giammai cessare in pochi istanti. Se una città è posta su una vera e propria faglia, in una delle zone maggiormente sismiche al mondo, si può solo sperare, egoisticamente, che il buio cada sugli altri, in futuro.

In queste condizioni, la bellezza di una città diviene effimera e il cimento è – in guisa di araba fenice – renderla ancora più bella dopo, nel risorgere dalle ceneri. Rinascere e spiccare il volo.

1908. La belle époque a Parigi, il terremoto a Messina. L’importanza di essere al posto giusto nel momento giusto o, per meglio dire, di non essere nel posto sbagliato. Sliding doors. Le risa ed il pianto, la vita e il dolore.

Il 27 dicembre sera, a Messina, al teatro Vittorio Emanuele, si rappresentò, con grande partecipazione e sfarzo, l’“Aida” di Giuseppe Verdi. Fu un enorme successo. Tanti applausi, un terremoto di applausi. Specie per il tenore Angelo Gamba, nella parte di Radames. Narra la leggenda che, di lì a poche ore, nel fatale 28 dicembre, egli cantò “O terra, addio; addio valle di pianti”, mentre moriva e constatava pure la morte di moglie e figli. Dal gratificante terremoto di applausi, al mortifero terremoto vero. La lucente vita e l’inaspettata morte.

Il 28 dicembre si ricordano, religiosamente, i Santi Innocenti Martiri. La data, per Messina, è ancor più intrisa di sangue innocente, non solo d’infanti.

Secoli polverizzati in pochi secondi

Messina, quando il sisma del 28 dicembre 1908 la ghermì, era un’elegante e nobile città del Regno d’Italia, ricca e culturalmente vivace. Situata in un punto strategico come l’omonimo stretto che la separa dalla penisola italiana – nonché da Reggio di Calabria, accomunata da questa e altre tragedie sismiche –, è da sempre approdo di genti e di merci, in virtù del porto naturale a forma di falce. Zancle venne chiamata, ab origine, proprio per il lembo di terra che, come una falce, si staglia dalla costa, creando una insenatura utile per i natanti.

Già la città venne scossa con forza dal terremoto del 1693 che interessò – con ingentissimi danni e sparizione di tanti centri urbani – un po’ tutta la Sicilia orientale. Successivamente, fu violentemente colpita dallo sciame sismico del 1783, riguardante in specie la Calabria meridionale. Si raggiunse una magnitudo oggi rapportabile a 7.1.

Prima della data fatale di inizi Novecento, si erano registrati sismi di elevata potenza e dai devastanti effetti nella Calabria centro-meridionale (16 novembre 1894, 8 settembre 1905, 23 ottobre 1907). E’ la dimostrazione di come il fermento geologico coinvolga le due sponde, separate dal mare e dalla faglia, in un contesto che enumera, non distanti, l’Etna, le vulcaniche isole Eolie – lo Stromboli è attivissimo e parimenti significative sono le emissioni gassose nell’isola di Vulcano – e il sottomarino Marsili, vulcano oggetto di sempre crescenti studi, di enorme pericolosità, praticamente posto tra le isole Eolie, al cui arco è ascrivibile, e la Calabria tirrenica.

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Alle ore 5, 20 minuti e 27 secondi, del 28 dicembre 1908, la terra tremò, per interminabili 37 secondi, quando i messinesi dormivano, lieti del periodo natalizio. La natura è un dono ma i 7.1/7.2 gradi della scala Richter – tanti furono – sono una dannazione. Non fu solo sisma. Anche l’amico di sempre, il mare, tradì. Infatti, poco dopo, alle ore 5,30 circa, vi fu il maremoto, con onde altissime dai sei ai dodici metri, le quali inghiottirono i superstiti che, fuggendo, avevano cercato riparo nei piazzali lungo la banchina del porto. Moltissimi furono anche gli incendi che scoppiarono ovunque.

Infinite scosse successive, per giorni e giorni, tormentarono ancora la Sicilia e la Calabria. Messina, che all’epoca contava circa 140.000 abitanti e che, ad esempio, nel Cinquecento era tra le prime dieci città d’Europa, ne perse circa 80.000; mentre Reggio di Calabria registrò circa 15.000 morti su una popolazione di circa 45.000 abitanti. Secondo alcune stime si raggiunse la cifra di 120.000 vittime, 80.000 in Sicilia e 40.000 in Calabria. Tantissimi i feriti. Immensi i danni materiali. Per numero di vittime, ancora oggi è la più grande catastrofe naturale d’Europa nonché tra le maggiori a livello mondiale.

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Il terremoto non ebbe alcuna pietà di Gaetano Salvemini, docente nel locale ateneo, che vide morire la moglie, i 5 figli e una sorella. Andò bene a Orso Mario Corbino, già dato per morto a Roma. A Messina il 90% delle case crollò, ma quella di Corbino no. Tutta la sua famiglia si salvò e, come racconta Laura Fermi, tra lo stupore generale si presentò regolarmente al lavoro, a Roma, dal prof. Pietro Blaserna, direttore dell’Istituto di fisica della Capitale.

La scossa interessò con i suoi effetti più gravi un’area di circa 6.000 kmq. Le conseguenze più catastrofiche del terremoto-maremoto furono rilevate nei quartieri antichi e più bassi della zona centrale di Messina, fondati su terreni alluvionali poco stabili e pieni di edifici con sproporzionate soprelevazioni, senza un adeguato rafforzamento delle fondazioni. I muri erano troppo sottili in relazione all’altezza, spesso costruiti con ciottoli di fiume o con mattoni tenuti insieme da poco cemento. I tetti e i solai risultavano eccessivamente pesanti e mal connessi con i muri maestri: per questo in molti casi sprofondarono anche quando le murature esterne rimasero in piedi. Gli effetti furono un po’ meno disastrosi nella parte alta più periferica della città, dove gli edifici erano fondati su terreni più stabili e compatti, e nei quartieri nuovi dove la qualità delle costruzioni era migliore.

Il terremoto ribolle da due giorni, è dicembre di uragani e mare avvelenato”, scrisse in una sua nota poesia Salvatore Quasimodo, giunto a Messina per il lavoro di ferroviere del padre – cui i versi sono dedicati –, proprio poco tempo dopo l’evento. “Fu una battaglia davvero, ma di Titani, ridesti dal loro sonno millenario in fondo agli abissi, e ritrovatisi in cuore la terribile loro collera primordiale”, affermò Giovanni Pascoli nel gennaio del 1909, in un discorso presso l’Università di Bologna. Così Matilde Serao, più volte candidata al premio Nobel per la letteratura, su “Il Giorno” del 31 dicembre 1908: “Io ti rivedo Messina Bella, perla preziosissima di Sicilia, nobile Messina, gentile Messina, amata dal navigante, dal commerciante, dal poeta e dal principe, perché eri ospitale, perché eri bella, perché eri linda e lieta, perché tutto in te era grazia e incantesimo, perla di Sicilia, schiacciata e bruciata!”.

Scrisse Luigi Barzini, nel “Corriere della Sera” del 14 gennaio 1909: “Qualche facciata di palazzo è rimasta in piedi lungo la marina con delle finestre sfondate e gli stipiti anneriti dagl’incendi; ma dietro alla facciata è sfacelo. Sono delle apparenze, come quinte di un teatro tenute in piedi per nascondere gli orrori della distruzione. A chi sbarca pare che il terremoto abbia avuto una specie di pudore nel suo delitto”. La costruzione cui egli si riferisce è la così detta Palazzata, cioè un insieme di pregevoli alti edifici che, tra loro adiacenti, si sviluppavano lungo tutto la costa, creando, appena dopo la banchina, una sorta di muro di protezione della città; centro urbano che, per chi proveniva dal mare, non era visibile proprio perché “coperto” dall’imponente costruzione con complessiva base di centinaia di metri. Qualcosa di architettonicamente mirabile.

L’animo dei messinesi – chi ha detto che la tenacia sia solo degli splendidi e laboriosissimi friulani? – emerge dalle parole di Giovanni Cena, in “Nuova Antologia” del 16 gennaio 1909, che scrive: “Usciamo. La città è deserta, muta, funebre. Le case intorno, alte cinque piani, sono in gran parte polverizzate e non ne rimangono in piedi che dei monconi; qui i sepolti vivi devono essere stati soffocati in poche ore, avviluppati dal minuto materiale. … Poi cominciò la pioggia, e sui sepolti si formò come una muratura compatta. Intanto i vivi, con una prontezza straordinaria impadronitisi d’un colossale deposito di tavole, dopo due ore dalla catastrofe fabbricavano baracche in Piazza Cairoli”.

E dalle parole di Federico de Roberto, nel Corriere della Sera dell’8 gennaio 1909: “Non si ripeta che Messina, Reggio e tutte le loro sciagurate sorelle sono morte per sempre. … Chi si ritrova incolume, ma solo al mondo, e povero, fugge sì, fugge quanto più può lontano, giurando a se stesso che mai più rivedrà le piagge mortuarie – ma non manterrà il giuramento. Alcuni, vedete, non fuggono neppure: si aggirano tra i rottami, seggono sopra un mucchio di sassi, senza sguardo, senza voce, senza forza tranne che per resistere a chi tenta di trascinarli via, senza volontà fuorché quella di ritrovare i loro morti”.

La solidarietà: non solo denaro

All’alba del 29 dicembre, arrivò la squadra navale della marina imperiale russa con sei navi: furono i primi soccorritori. Le navi dello Zar erano alla fonda nel porto siciliano di Augusta e si diressero a tutta forza verso lo Stretto. I marinai russi, si adoperarono intensamente tra le macerie, dando aiuto alla popolazione stremata e ai superstiti, lasciando un indelebile ricordo di laboriosità e umanità. Agli ordini dell’Ammiraglio Ponomareff, prestarono soccorso e svolsero opera di ordine pubblico. La solidarietà verso la città andò oltre: fu costituito un comitato Pietroburgo - Messina che inviò generi di prima necessità e raccolse fondi per la ricostruzione. Lo stesso Zar donò 50.000 franchi. Lo scrittore Gorkij scrisse un libro sul terremoto e i proventi furono donati alla città. Il ricordo dell’aiuto ricevuto dai Russi restò vivo a Messina.

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, l’Ammiraglio Ponomareff, dovette fuggire dalla Russia bolscevica e giunse a Messina nel 1918, privo di mezzi di sostentamento. In città fu subito organizzata una raccolta di fondi per aiutarlo tramite il giornale La Gazzetta di Messina e delle Calabrie.

Nel 2006, in riconoscimento del grande impegno profuso dalla marina zarista il Comune di Messina ha eretto una lapide e dedicata una via alla Marina di Russia. Dopo le navi zariste a Messina arrivarono le navi di Sua Maestà Britannica con sei unità da guerra e una squadra navale della “Great White Fleet” statunitense. Gli inglesi si mossero dall’arcipelago maltese e dall’Egitto da dove arrivarono anche le navi americane appena giunte nel Mediterraneo attraverso il canale di Suez. Il mondo intero si commosse. Capi di Stato e di Governo, nonché Papa Pio X, espressero il loro cordoglio e inviarono notevoli aiuti anche finanziari. Unità da guerra francesi, tedesche, spagnole, greche e di altre nazionalità lasciarono i loro ormeggi e, raggiunte le due sponde dello Stretto, misero a disposizione anche i propri equipaggi per provvedere a quanto si ritenesse necessario, distinguendosi sempre nel corso delle azioni cui presero parte. Arrivò anche la squadra navale dell’Italia.

La presenza dei sovrani italiani, giunti all’alba del 30 dicembre, costituì, secondo alcuni storici, il primo vero contatto umano fra la dinastia piemontese ed il sud. Molto apprezzata fu la regina Elena. In Italia, oltre agli interventi organizzati dalla Croce Rossa e dall’Ordine dei Cavalieri di Malta, si crearono centinaia di comitati spontanei e, nelle prime settimane del 1909, furono organizzate le cosiddette “passeggiate di beneficenza” per raccogliere denaro. Da molte province partirono squadre di volontari composte da medici, ingegneri, tecnici, operai, sacerdoti ed insegnanti per sostenere i terremotati. Nella memoria collettiva è rimasta anche la solidarietà e il contributo di Donna Franca Florio. La “Regina senza corona” della Belle Époque siciliana, lavorò come crocerossina a bordo delle navi. Da ricordare anche la tenacia paterna di Monsignor D’Arrigo, vescovo della città, che più volte assunse un ruolo di guida e di tutela della comunità. Anche nel senso del ripartire, del rinascere nei luoghi.

Un caso a parte, in senso negativo, fu il generale austriaco Franz Conrad von Hazendorf, capo di stato maggiore dell’Imperial Regio esercito Austro Ungarico, che - contrariamente agli alleati Tedeschi - poco dopo la tragedia incitò il proprio governo alla guerra contro l’Italia per approfittare dello stato di debolezza del nostro Paese. Richiesta che venne reiterata finché il ministro Ärenthal, esasperato e sconcertato, ne chiese e ottenne l’allontanamento dalla carica. Alla morte di Ärenthal, però, nel 1912, Conrad fu richiamato. Lo avremmo trovato alla guida della Strafe Expedition nel 1916, secondo anno della Grande Guerra. Anche gli austriaci e i tedeschi quindi diedero il loro positivo contributo per la rinascita delle zone terremotate. Era il 1908 e, di lì a poco, vi sarebbe stata la Prima Guerra Mondiale: come si poté smarrire il senso di umanità che i ruderi, le ceneri, i morti, i pianti di Messina riuscì ovunque a suscitare?

(Continua)

Andrea Vaccaro e Camillo Beccalli

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