Muore Abdullah, il bambino separato dalla madre a causa del Muslim Ban

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Ipomielinizzazione con coinvolgimento del tronco encefalico e del midollo spinale con spasticità delle gambe, meglio noto come HBSL, è il nome di una di quelle patologie di cui raramente sentiamo parlare, ma che troppo spesso tendiamo a sminuire. Non è una malattia particolarmente diffusa, anzi in effetti colpisce in media una persona su un milione, eppure quella sfortunata persona su un milione è quasi sempre condannata a perire fra atroci sofferenze, dal momento che, in effetti, una cura vera e propria non è mai stata trovata.

A farne le spese nella serata di domenica è stato il piccolo Abdullah Hassan, un dolce bambino egiziano al quale fin dalla nascita è stata diagnosticata la tremenda malattia. Fin da subito è stato chiaro che il malessere si sarebbe quasi certamente rivelato fatale, eppure, come avrebbe fatto qualunque uomo risoluto e affezionato al proprio bambino, suo padre non ha voluto arrendersi: pur di cercare una cura è stato disposto ad abbandonare il proprio Paese e a emigrare negli Stati Uniti dove, almeno così sperava, avrebbe potuto tentare delle cure sperimentali.

Abdullah è stato quasi immediatamente portato al “Children’s Hospital Oakland”. Non certamente una scelta casuale, se consideriamo che il policlinico in questione è uno dei pochi ad offrire assistenza sanitaria anche a chi non gode di un’apposita assicurazione e, soprattutto, è uno dei migliori ospedali pediatrici indipendenti dell’intera California settentrionale.

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Sfortunatamente, neppure il luogo meglio attrezzato o il medico più capace del mondo potrebbero mai salvare un paziente ormai condannato: fin da subito, il personale del Children’s Hospital fu costretto ad ammettere di non poter far nulla per il bambino, tranne ovviamente tentare di rendere i suoi ultimi giorni di vita il più sereni possibile.

Affinché ciò accadesse, com’è ovvio, sarebbe stato indispensabile che a stringere fra le braccia Abdullah vi fosse sua madre Shaima, la donna che più di tutte lo amava; il problema è che la signora non poteva essere lì. A differenza del marito, infatti, lei non possedeva la cittadinanza egiziana, ma quella di un altro Paese islamico evidentemente considerato ben più ostile dal governo americano, lo Yemen. Non più tardi di pochi mesi prima, tale nazione era stata inclusa fra i sei stati soggetti al cosiddetto “Muslim Ban”, il provvedimento legislativo voluto da Trump attraverso il quale veniva vietato l’ingresso negli Stati Uniti a ogni uomo o donna desideroso di recarsi in America qualunque fosse lo scopo della sua visita… perfino se lo scopo in questione fosse stato quello di rivedere per un’ultima volta il proprio bambino.

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Naturalmente, la notizia ha fatto discutere sollevando svariate polemiche da parte di chi riteneva che Shaima non meritasse un simile trattamento: “Questa negazione è una crudeltà incomprensibile” aveva asserito Saad Sweilem, membro del consiglio per le relazioni islamico-americane.

Eppure, il dibattito politico e ideologico scaturito dalla vicenda è divenuto quasi secondario innanzi allo straziante dolore della famiglia Hassan; nelle ultime settimane, Shaima avrebbe espresso il desiderio di riabbracciare il proprio figlio tutti i giorni, attraverso lunghe conversazioni telefoniche col marito. Quest’ultimo ha a sua volta rivolto numerosi appelli alle autorità affinché lo aiutassero a riunire la propria famiglia. Appelli che, evidentemente, non avrebbero potuto lasciare indifferente neppure il cuore del più freddo dei burocrati. È stato così che il 20 dicembre, in via del tutto eccezionale, alla signora Shaima Hassan è stato concesso un visto umanitario per permetterle di entrare negli Stati Uniti.

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Lo sfortunato Abdullah, ha così avuto la possibilità di trascorrere le feste natalizie con i propri genitori prima che purtroppo, il naturale progresso del morbo lo portasse via.

È difficile esprimere il rammarico per la morte d’un bambino di appena due anni, ciò che è certo tuttavia, è che se nulla sarebbe stato possibile fare per evitare questa tragica fine, molto sarebbe stato possibile fare, al contrario, per evitare questa per certi versi ancor più tragica separazione. Se Shaima non fosse stata yemenita avrebbe potuto rimanere accanto al figlio in ogni momento, trascorrendo con lui ogni istante della sua breve e travagliata vita… perfino gli istanti che un genitore si augurerebbe non arrivassero mai. Invece, ha dovuto accontentarsi di stargli accanto solo negli ultimi dieci giorni, il che è un po’ dire che in fondo essa è stata castigata soltanto per la propria nazionalità.

Gianmatteo Ercolino

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