Netflix e la serie tv maledetta

La Major americana sotto accusa per i casi di suicidio legati, probabilmente, alla visione di un suo cult televisivo

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In seguito ad uno studio condotto dal Nationwide Children’s Hospital, ospedale e istituto di ricerca statunitense, è stato registrato un aumento del 40% dei casi di suicidio nel 2017, - soprattutto nel mese di aprile - anno in cui è apparsa sulla piattaforma Netflix la serie televisiva ’13 Reason Why’ (in Italia conosciuta come Tredici). L’accusa è di aver influenzato le fragili menti turbate di alcuni giovani ragazzi, fra i 10 e i 17 anni, spingendoli al suicidio. La controversa serie tv, che ha mosso non poche critiche fin dal suo esordio, narra della storia di una diciassettenne, vittima di mobbing e violenza sessuale, che incide su tredici cassette a nastro i motivi per cui ha deciso di togliersi la vita, attribuendo la colpa del proprio gesto al comportamento altrui. A far discutere più di ogni altra cosa, è la naturalezza con cui la morte sia presentata come una possibile, o come l’unica soluzione per porre fine ai propri problemi, e, allo stesso tempo, un gesto estremo che garantisca accettazione e consenso sociale. Il ricercatore e direttore del centro per la prevenzione e ricerca dei sucidi del Nationwide Children, Jeff Bridge, sostiene che ci possa essere un collegamento fra la glorificazione mediatica del suicidio e la presa di coscienza che porta uno spettatore a commettere l’atto decisivo, come un semplice fenomeno di causa-effetto: “I giovani possono essere particolarmente suscettibili al contagio del suicidio, che può essere incoraggiato da storie che sensazionalizzano o promuovono spiegazioni semplicistiche del comportamento suicidario, glorificano o romanticizzano il decedente, presentano il suicidio come un mezzo per raggiungere un obiettivo o offrono potenziali prescrizioni su come fare per suicidarsi. - continua il ricercatore - I ritratti del suicidio nei media di intrattenimento dovrebbero evitare dettagli grafici del suicidio – cosa che la serie non ha fatto – e rispettare le linee guida sulle migliori pratiche per ridurre il rischio di un consequenziale suicidio”.

Netflix non si è mostrata impassibile difronte ai campanelli di allarme e alle numerose accuse dirette alla serie; infatti all’inizio degli episodi di Tredici appare un avvertimento che invita gli spettatori più suscettibili a visionare l’episodio in compagnia di un adulto, o chiedere aiuto in caso di disagio. Il presidente della società italiana di psichiatria sostiene (così come riportato dalle pagine de Ilgiornale.it) che ci sia della verità nelle accuse mosse alla serie televisiva: “Il suicido è sostenuto da comportamenti imitativi, non stupisce quindi un aumento registrato dallo studio, dato che, in quella fascia di età, l’adolescente è molto fragile.” Nonostante le calunnie, la società Netflix, imperterrita, rinnova la terza stagione della serie divenuta, oramai, un cult televisivo, e sostiene, difendendosi, di star semplicemente esaminando la diffamatoria ricerca del Nationwide Children’s Hospital, poiché in conflitto con uno studio condotto dall’University of Pennsylvania che, invece, attraverso una attenta analisi sottolinea l’ausilio pedagogico della seconda stagione, la quale avrebbe portato gli spettatori a fare un passo indietro rispetto al provocarsi danni fisici o al pensare al suicidio. In ogni modo, si tratta della seconda stagione della serie tv e la protagonista Hannha Baker, interpretata dall’attrice australiana Katherine Langford, si è già suicidata.

Nicòl De Giosa

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