PROPOSTE DI LETTURA: GIACOMO LEOPARDI: LA SERA DEL DI’ DI FESTA

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cms_19541/0.jpgGiacomo Leopardi (1798-1837) è un po’ come Pelè. Di quest’ultimo ancora si ragiona per capire se fosse meglio il suo destro o il suo mancino. Così come è arduo sentenziare se sia più grande il Leopardi filosofo o se lo sia il poeta. Basti pensare che di lui si è occupata la critica della letteratura mondiale: tanto per restare in Italia, dal Croce al De Santis, da Giorgio Bàrberi Squarotti a Elio Gioanola, sino ai recentissimi interventi di Vincenzo Guarracino e di Mauro Ferrari (per citarne solo alcuni). Inutile, pertanto, spendere altre parole sulla sua statura di poeta e/o di filosofo. Nato nel 1792, sino al 1822/23 non gli fu consentita nessuna evasione, se non nello “studio matto e disperatissimo” della biblioteca di famiglia. Poi i viaggi: Roma, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, Napoli. Tornando più volte a Recanati, deluso. Non conobbe l’amore corrisposto. Conobbe Fanny Targioni Tozzetti e se ne innamorò, non ricambiato. Molti anni dopo una giovane giornalista, Matilde Serao, intervistò l’ormai anziana Fanny, chiedendole perché avesse rifiutato le avances di un così grande poeta. La vegliarda rispose: “Mia cara, puzzava!” Non sappiamo se furono davvero queste le sue esatte parole o se la Serao ci abbia messo del suo. Preferiamo il nitore di uno degli incipit più straordinari della letteratura. Quello no che non puzza!

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La sera del dì di festa

Dolce e chiara è la notte e senza vento,

E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

Posa la luna, e di lontan rivela

Serena ogni montagna. O donna mia,

Già tace ogni sentiero, e pei balconi

Rara traluce la notturna lampa:

Tu dormi, che t’accolse agevol sonno

Nelle tue chete stanze; e non ti morde

Cura nessuna; e già non sai né pensi

Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno

Appare in vista, a salutar m’affaccio,

E l’antica natura onnipossente,

Che mi fece all’affanno. A te la speme

Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro

Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

Questo dì fu solenne: or da’ trastulli

Prendi riposo; e forse ti rimembra

In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,

Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

Quanto a viver mi resti, e qui per terra

Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi

In così verde etate! Ahi, per la via

Odo non lunge il solitario canto

Dell’artigian, che riede a tarda notte,

Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;

E fieramente mi si stringe il core,

A pensar come tutto al mondo passa,

E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

Il dì festivo, ed al festivo il giorno

Volgar succede, e se ne porta il tempo

Ogni umano accidente. Or dov’è il suono

Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido

De’ nostri avi famosi, e il grande impero

Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio

Che n’andò per la terra e l’oceàno?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

Il mondo, e più di lor non si ragiona.

Nella mia prima età, quando s’aspetta

Bramosamente il dì festivo, or poscia

Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,

Premea le piume; ed alla tarda notte

Un canto che s’udia per li sentieri

Lontanando morire a poco a poco,

Già similmente mi stringeva il core.

Raffaele Floris

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