Pakistan: cinque partiti vogliono introdurre la sharia

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Qualunque partito o coalizione politica alla vigilia delle elezioni propone una serie di punti programmatici che, in un certo senso, rappresentano una vera e propria dichiarazione d’intenti in merito a quella che sarà la propria linea politica una volta al governo. Naturalmente, non sempre gli obiettivi previsti vengono raggiunti o le promesse mantenute, tuttavia i manifesti elettorali pubblicati costituiscono uno strumento particolarmente utile per comprendere la natura dei partiti e, più in generale, la loro idea sulla direzione che il proprio Paese dovrebbe intraprendere.

Solitamente, i programmi elettorali riguardano temi come la sicurezza, il lavoro, l’economia… eppure, in Pakistan esistono ben cinque partiti politici (Jamiat Ulema-e-Islam, Jamaat-e-Islami, Markazi Jamiat Ahle Hadith, Tehreek-e-Jafaria Pakistan e Jamiat Ulema-e-Pakistan) che hanno inserito come punto più importante delle proprie intenzioni elettorali l’introduzione della sharia. Non che oggi il Pakistan sia uno stato completamente laico, tutt’altro. Fin dall’entrata in vigore della costituzione del ’73, infatti, lo stato ha dichiarato l’intenzione di ripudiare qualunque legge in contrasto con i principi e i valori del mondo musulmano, arrivando perfino a istituire una corte federale legittimata ad annullare qualunque legge non andasse in questa direzione (articolo 31 della costituzione). Ciononostante, nessuno in tutti questi anni ha mai proposto un provvedimento così radicale come l’entrata in vigore della sharia.

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Per chiunque fosse poco avvezzo ai costumi e alla mentalità del mondo islamico, la sharia è un insieme di leggi che mirano ad essere coerenti non con i principi di giustizia e libertà tipici del mondo moderno, ma con la volontà di Dio e, più nello specifico, con i principi espressi nel Corano attraverso la parola del profeta Maometto. Per intenderci, qualora tale sistema venisse approvato il Pakistan dovrebbe introdurre immediatamente la condanna a morte per i reati di adulterio, omosessualità, apostasia e perfino bestemmia. Tutti atti che, nel mondo occidentale, non costituiscono neppure dei reati.

Eppure, non è possibile comprendere la portata e in un certo senso la gravità di questo fenomeno se prima non comprendiamo la rilevanza sociopolitica del Pakistan. Quest’ultimo infatti, non è un paesino sperduto in qualche regione asiatica, né può essere annoverato come uno stato povero, debole e politicamente irrilevante. Al contrario, il Pakistan vanta ad oggi oltre 200 milioni d’abitanti (la maggior parte sunniti), un consistente prodotto interno lordo e, cosa forse più importante di tutte, è l’unico Paese musulmano al mondo a godere di un arsenale nucleare.

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Proprio così, perché le costanti tensioni con la vicina India, nate in seguito alle divisioni dei due Paesi nella seconda metà degli anni ‘40, hanno portato i due stati vicini a un clima di costante tensione che, a sua volta, è sfociato nel desiderio di armarsi fino ai denti per prevenire un’eventuale guerra, nonché in una serie di attacchi terroristici. Ne sanno qualcosa i ventotto studenti che, non più tardi dello scorso maggio, sono rimasti gravemente feriti in seguito a un attentato di un’organizzazione induista radicale presso l’Aligarh Muslim University dell’Uttar Pradesh.

A fare le spese di questi atti intimidatori sono soprattutto le minoranze religiose, le quali spesso rimangono coinvolte sia nelle azioni violente dei musulmani che in quelle degli induisti. Forse, proprio per avere figure autorevoli con le quali contrastare tali fenomeni, papa Francesco ha di recente nominato cardinale un pakistano, Joseph Coutts, il primo cardinale proveniente da tale Paese da ventiquattro anni a questa parte. Proprio l’ormai ex arcivescovo di Karachi, negli ultimi tempi, aveva espresso una particolare preoccupazione nei confronti di quelli che lui stesso aveva definito “eclatanti esempi d’intolleranza religiosa”.

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Le imminenti elezioni del 25 luglio infatti, più che un’opportunità sembrano rappresentare un ostacolo e una minaccia per le minoranze del Paese. Come detto, ben cinque partiti hanno espresso l’intenzione d’introdurre la sharia, e anche laddove tali forze non dovessero ottenere la maggioranza parlamentare non si può tuttavia ignorare che il loro consenso è sintomatico di un fondamentalismo religioso destinato a crescere sempre di più, soprattutto nelle provincie Khyber Pakhtunkhwa e Balochistan (quelle dove tutti i cinque partiti in questione sono nati). Negli ultimi due decenni, tali provincie del Pakistan hanno risentito in modo molto significativo del contatto con il mondo talebano, sia per ragioni culturali che per ragioni geografiche (sono situate al confine con l’Afghanistan). Di conseguenza, ad oggi per i loro abitanti l’adottamento di un regime più rigido non sembra essere poi un’idea così peregrina.

A tutto questo bisogna aggiungere che il pericolo di brogli elettorali da parte dei partiti ultraconservatori potrebbe essere dietro l’angolo. A guidare il Pakistan alle elezioni, infatti, sarà l’attuale premier pro tempore Nasir Ul-Mulk, un ex giudice che, pur essendo indubbiamente una persona di grande integrità morale, sembra aver perso da tempo il controllo della situazione. Non è un caso se l’Unione Europea ha deciso d’inviare in Pakistan una commissione speciale presieduta dall’europarlamentare tedesco Michael Gahler, al fine di assicurarsi il regolare svolgimento delle elezioni.

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Sarà molto interessante comprendere se il 25 luglio ci consegnerà un Pakistan più vicino alle sue tradizioni o viceversa una nazione laica e moderna. La sensazione di molti analisti è che ad essere decisivo sarà soprattutto il voto delle donne. Malgrado l’introduzione della sharia, o quantomeno di un sistema più arcaico, in teoria dovrebbe ledere molti dei diritti femminili tanto faticosamente conquistati, è tuttavia molto curioso notare che secondo i sondaggi sarebbero in molte le donne intenzionate a sostenere i partiti musulmani di estrema destra. Un dato che fa riflettere su come, in fondo, il progresso non può essere imposto né ordinato dall’esterno: per quanto scalpore e scetticismo possiamo nutrire nei confronti del Pakistan o di molti altri Paesi integralisti, la decisione sul futuro che essi intendono intraprendere non può spettare che a loro.

Gianmatteo Ercolino

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