Pandorato

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IL PANE

cms_22465/1.jpgGli antichi Romani non conoscevano il pane, accompagnavano le pietanze con la puls, che era il piatto nazionale, chiamati mangiapolenta dai greci che invece avevano già gusti più raffinati. La puls era preparata con il farro, far in latino, che ha dato origine al termine farina. Quando scoprirono il pane, grazie ai più stretti e frequenti rapporti con i greci, ne rimasero conquistati.

All’inizio la preparazione fu esclusivamente casalinga, anche perché la moda veniva considerata esotica e, come tale, criticata e riprovata dai conservatori come Catone.

Con i grandi mutamenti politici e sociali il tenore di vita migliorò e nelle famiglie di classe sociale elevata c’era sempre lo schiavo panettiere, spesso obbligato a indossare guanti quando impastava e a mettere una protezione sul viso per evitare che il respiro e il sudore finissero nell’impasto.

Il gusto e il piacere del pane divennero irrinunciabili con il passar del tempo, i Romani divennero più esigenti, e con la conquista della Grecia giunsero a Roma esperti panettieri greci che svolgevano anche mansioni di mugnai e lavoravano molto meglio degli schiavi.

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Man mano che la domanda cresceva, l’offerta si adeguava con proposte sempre nuove e più variegate, individuate con nomi differenti secondo l’uso cui il pane era destinato e il luogo in cui veniva consumato: il nauticus era una specie di galletta che i naviganti portavano nei lunghi viaggi per il mare; sui gradini dell’anfiteatro gli spettatori mangiavano il gradilis, l’ostrearius era il tipo più raffinato da servire con le ostriche, il digestus era dedicato ai deboli di stomaco, il peggiore era il durus ac sordidus, fatto di sola crusca, per chi non poteva permettersi altro[…]

Intorno all’anno Mille, con la nascita dei Comuni, i fornai tornarono ad essere artigiani indipendenti raggruppati in corporazioni, spesso però il loro lavoro si limitava alla cottura di pane e focacce preparate in casa, mentre nelle dimore gentilizie il forno per il pane non mancava mai. Tuttavia l’arte panaria ebbe un notevole rilancio con la ricomparsa dei prodotti della panificazione di tradizione romana: placenta dolciaria, sorta di focaccia arricchita da mandorle e ingredienti dolcificanti; sesamidis, schiacciate con il sesamo, e il radium, sorta di panino dolce a pasta lievitata di forma ovale, arricchito con uva passita, pinoli e buccia d’arancia candita, tradizionale per le feste dinozze, che sin dal Medio Evo i romani chiamarono maritozzo.

La cultura del pane a Roma ha dunque origini antiche ed è profondamente radicata in tutto il Lazio. Un tempo il pane era fatto sempre in casa, le splendide pagnotte, regali nella loro fragranza, avvolte in salviette di tela si mantenevano umide e duravano una settimana. Giggi Zanazzo sottolineò la sacralità di quel pane in “Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma”:

“Quanno casca un pezzo de pane pe’ tera bbisogna ariccojelo, bbaciallo, e ssi ss’è sporcato, e nun se po’ magnà, se bbutta sur fòco. Le pagnotte poi nun vanno mai messe su la tavola a panza pell’aria, perché si nnò ppiagne la Madonna”.

A Roma non si concepisce mangiare senza pane a tavola, oggi le forme sono tante, sfilatini, rosette, fruste, pane-pizza, filoni, ma tipica romana è la ciriola (dal latino medievale ciriolus = cero) panino di forma affusolata, mollica soffice, crosta dorata e croccante; nell’Ottocento un panino di forma speciale, ormai scomparso, fu chiamato ciumachella, felice accostamento tra croccantezza del pane e l’avvenenza di una giovinetta. Forme particolari di pane sono legate a festività religiose risalenti a simbologie antichissime, come la donna con tre mammelle, tipica dei Castelli Romani dove l’arte della panificazione vanta una tradizione consolidata […]

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La tradizione contadina, contraria allo spreco per mentalità e anche per necessità, ha fornito tante ricette che prevedono l’utilizzo del pane raffermo sia sotto forma di zuppe, minestre ed altre pietanze salate, sia per preparazioni dolci.

Sin dalle fasce, i bambini di una volta, quando non esisteva ancora il succhiotto, erano tenuti buoni dalle mamme con una mollica di pane bagnata, intinta nello zucchero e chiusa nell’angolo di un fazzoletto ben legato, ogni tanto sostituita. Da più grandi passavano al pane nelle zuppe di latte, alle merendine di pane, zucchero e vino agli spuntini a base di pane come i vari crostini, pandorato, bruschetta, panzanella, pagnottelle ar bur’alice, mozzarella in carrozza, e via di questo passo. (Da “Er mejo de la cucina romana” di Lejla Mancusi Sorrentino)

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Il pandorato ha rappresentato da sempre il modo più semplice per utilizzare il pane diventato troppo duro e per recuperare l’uovo sbattuto che era avanzato nella preparazione di una frittura.

Tagliate alcune fetta di pane, imbevetele nella ciotola contenente l’uovo sbattuto e fatele friggere a fuoco lento rigirandole spesso. Il massimo del sapore si otteneva facendole friggere nello strutto. L’uovo sbattuto si poteva allungare con del latte.

Commentava simpaticamente Aldo Fabrizi alla chiusura di un famoso sonetto:

Certo chi soffre di colesterina

e nun se vo aggravà, rinunci puro

e vadi a letto co la minestrina”.

Si potevano tagliare fette di pane più doppie, all’interno delle quali si scavava una tasca dove venivano inserite vari tipi di farcitura.

Venivano chiamati cuscinetti di pandorato e la loro preparazione era diffusa un po’ in tutto il Lazio, non solo a Roma. Ada Boni li descrive così: “…con un coltello tagliente si apre la fetta in due senza però separare le due parti. Si mette nell’interno qualche fettina di provatura e qualche filettino di alici, oppure qualche fettina di provatura e qualche fettina di prosciutto”.

Uno dei grandi problemi della storia dell’alimentazione è stato quello dell’utilizzo ottimale del pane duro, raffermo, cercando di non far perdere uno dei rari prodotti alimentari che si avevano a disposizione. Il pane veniva preparato al forno ogni settimana, spesso ogni due, le farine utilizzate non erano delle migliori; dopo un paio di giorni diventava duro… ed i denti non avevano la forza di oggi.

Ovviamente la prima idea, la più spontanea, fu quella di bagnare con dell’acqua le fette di pane o di inzupparle in una tazza di latte, poi di intingerle nelle zuppe; per secoli e secoli la cena serale delle famiglie contadine fu una zuppa di erbe o di rape accompagnate da una fetta di pane.

In seguito piano piano nacquero preparazioni più gradevoli, il pandorato, le bruschette, la panzanella, etc...

E poi il pancotto, che fotografava l’alimentazione del tempo, solo pane ed acqua cotti in un pentolino, a volte con un filo d’olio, molto apprezzato, e non solo dai bambini. La sua consistenza cremosa era adatta ai pasti dei piccoli e di tutte le persone che avevano problemi di masticazione, la cui felicità aumentò quando con il passar del tempo si iniziarono ad inserire nel pancotto altri ingredienti più saporiti: formaggio grattugiato, pomodori, patate, etc…

Bruno Di Ciaccio

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