Pechino risponde ai dazi di Trump

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Sono passati pochi giorni dall’introduzione negli Stati Uniti dei dazi volti a limitare il commercio con partner sgraditi e a proteggere l’industria nazionale. Ebbene, a distanza di poco tempo, al pari delle immancabili polemiche, è giunta anche la prima significativa risposta da parte di un Paese straniero.

Il governo di Pechino, attraverso una nota del ministero del commercio, ha annunciato nella mattinata di venerdì di essere pronto ad introdurre tariffe del 25% sulla carne di maiale esportata dagli Stati Uniti e del 15% sulla frutta, il vino e i tubi d’acciaio. Una misura, quest’ultima, particolarmente significativa, perché in grado di colpire le aziende esportatrici statunitensi proprio nel settore dove sono più vulnerabili e al quale legano gran parte delle proprie possibilità di crescita.

cms_8761/2.jpgTali decisioni, pur non essendo irreversibili o particolarmente drastiche, testimoniano tuttavia la precisa volontà da parte del governo di Xi Jinping di dare il via a una stagione di contromisure e rappresaglie nei confronti del governo statunitense.

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Il primo anno della presidenza Trump è stato contraddistinto da una sostanziale ambiguità nei confronti di Pechino: da un lato il tycoon ha espresso più volte parole di lode e di apprezzamento nei confronti del suo omologo cinese, arrivando a maturare l’auspicio di un sempre più pacifico e sereno rapporto tra le due nazioni. Al contempo, in diverse occasioni ha manifestato un evidente sconcerto nei confronti della politica estera e diplomatica di Xi Jinping (specialmente in riferimento alla vicenda nordcoreana), nonché un desiderio di creare una discontinuità nei confronti delle politiche commerciali adottate dai suoi predecessori verso la Cina e il resto del mondo; una discontinuità che, negli ultimi giorni, si è inevitabilmente tradotta nell’introduzione di nuovi dazi.

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Il terrore degli analisti finanziari è che le misure intraprese da ambedue i presidenti generino un’autentica escalation, in grado di andare ben oltre il “semplice” valore di 50 miliardi di dollari, intorno al quale dovrebbero attestarsi le attuali sanzioni. A questo punto, è dunque naturale interrogarsi su quale dei due Paesi avrebbe da perderci maggiormente nel caso in cui una situazione del genere si concretizzasse. Immancabilmente, dobbiamo pensare a quella che è stata la crescita esponenziale dell’economia cinese negli ultimi anni: oggi, a differenza di vent’anni fa, la Cina non è più soltanto un Paese in via di sviluppo come molti altri. È un Paese forte, organizzato, un Paese che ha acquisito un’influenza indicibile nello scacchiere finanziario internazionale… anche a causa del proprio controllo su gran parte del debito U.S.A. In altre parole, se da un lato è vero che da una guerra commerciale nessuno trarrebbe giovamento, appare comunque evidente che in questo momento Washington non sembra avere il coltello dalla parte del manico.

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Tuttavia, sarebbe infantile ridurre la disputa tra i due Paesi (o meglio, tra i due presidenti) ad una semplice discussione su quale dei due abbia le maggiori possibilità economiche per sopravvivere a discapito dell’altro. La verità è che le vicende di questi giorni ci portano a sviluppare una riflessione ben più complessa, che potrebbe riguardare non solo la Cina e gli Stati Uniti, ma anche gran parte del mondo occidentale. Sempre più frequentemente, assistiamo all’auspicio da parte di esponenti del mondo della politica e della finanza di un ritorno ad un’economia autarchica e isolazionista. Donald Trump, fin dalla sua campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2016, è divenuto il più autorevole portavoce a livello globale di questa battaglia, ma non è certo l’unico. Se, da un lato, il desiderio di difendere le proprie industrie e i propri lavoratori dalle minacce della globalizzazione risulti essere quanto mai nobile, occorre tuttavia prendere atto del fatto che lo scenario economico globale non consente di sperare di trovare una soluzione locale ai problemi della disuguaglianza, della disoccupazione e della crisi economica in atto. Questi, così come numerosi altri problemi di natura sociale, possono essere affrontati solamente rimanendo uniti. Le problematiche che abbiamo davanti sono globali, di conseguenza anche le soluzioni dovranno essere globali. In questo senso la politica dei dazi, indipendentemente da chi la promuova, rischia di risultare anacronistica rispetto al contesto in cui viviamo; e forse, proprio per questa ragione, bisognerebbe subito iniziare a valutare le possibili alternative ad essa.

Gianmatteo Ercolino

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