QUALCHE OCCASIONE PER RIFLETTERE SULL’OSCURO OGGETTO DELLA DIDATTICA

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Da qualche tempo si avverte il bisogno di dismettere ogni pretesa di fondazione teoretica costruita con l’uso verbale dell’indicativo-tassativo ed assertorio, che è proprio delle conoscenze acquisite e confermate. Tale circostanza non viene ribadita solo nella versione didattica delle scienze naturali e fisiche, ma viene fatta valere anche per le humanitates a cui, pur in mancanza di ogni ragionevole supporto epistemologico, vengono attribuite pretese di predittiva scientificità. Ed è così, allora, che, nella specificità delle scienze umane, si viene preferendo alla conclusiva perentorietà dell’indicativo l’ipoteticità del congiuntivo.

L’opzione “congiuntiva”, peraltro, agisce un tale modo verbale per indicare non già un’azione riduttivamente certificatoria quanto piuttosto un percorso ipotetico e dubbio, in cui possa esprimersi compiutamente la forza di un episteme che qui va doverosamente riconosciuto e confermato. In modo tale, insomma, che ad ogni soggetto considerato come necessario episteme da presupporre venga riconosciuta la libertà e la responsabilità di buttar ponti tra una tardigrada ideologia scientistica e le istanze democratiche di una innovativa cultura umanizzata, pluralista e comunque post-ideologica. Una condizione, questa, che tende a riconoscere quei particolari effetti riassumibili per un verso nel superamento di pregiudizi con cui ancora si ritiene di poter soffocare l’ipotesi di un non ingenuo senso comune. Qualche occasione per riflettere sull’oscuro oggetto della didattica e per altro verso nel lasciare che il mondo possa davvero divenire come gli attori sociali in qualche modo ritengono, nel rispetto ovviamente di regole storicamente condivise e culturalmente accordate.

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L’uso del congiuntivo, insomma, consente un certo modo di affrontare questioni che si lasciano alla disponibilità di ciascuno di confezionarsene una individuale rappresentazione. Che non è affatto un’astratta concessione, banale forzatura di ragionamento attributivo svolto su base ideologica e perciò privo di riferimenti ad evidenze empiricamente sostenibili, trattandosi piuttosto del riconoscimento del peculiare modus operandi dell’agire umano. Ebbene, a metterlo in luce è proprio la declinazione dei verbi, ovvero la scelta dei tempi con cui l’attore esprime la propria rappresentazione di mondo; che è dunque il modo con cui il soggetto modula le forme delle proprie rappresentazioni, che potranno essere considerate tra le tante altre possibilità costruite nell’ambito di un approccio fenomenologico come configurazioni “chiuse o aperte”. Ed è proprio questa duplice possibilità, allora, che induce a doverne ricercare l’origine in una fonte non omogenea, nel senso che una rappresentazione di mondo potrà risultare “chiusa” se il soggetto che la esprime si autocentra sul proprio punto di vista, mentre risulterà “aperta” se riterrà legittima l’espressione di altri punti di vista tra i quali agiranno diverse forme di confronto. Infatti, ad esser messo in gioco qui non è tanto la molteplicità dei punti di vista (con gli effetti determinati sia dall’apertura culturale che dalla chiusura dogmatica), quanto piuttosto l’impianto epistemico che supporti una tale rappresentazione di mondo non già per giustificarne appena la impalcatura concettuale, quanto piuttosto per comprendere le sue dinamiche (sincroniche e diacroniche), così da spiegare tanto la connotazione sociale di ciò che viene continuamente negoziandosi tra gli attori quanto la loro singolare aspirazione a volerne innalzare ogni individuale presentazione in una prospettiva etica.

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Ragioniamoci, a partire da un tipico approccio fenomenologico: se infatti si assumono le forme linguistiche, con cui tali punti di vista sembrano scontrarsi e confrontarsi, come puramente formali (speech act), ne conseguirebbe un loro uso talmente meccanico (convenzionalismo linguistico) da far risultare il soggetto appena “pertinente” o addirittura del tutto “inadeguato” impedendo così ogni altra possibile valutazione, soprattutto quella fondata sul binomio del punto di vista “aperto” o “chiuso” . Ebbene, nel caso di “pertinente/inadeguato” è in gioco uno schema meramente applicativo per il quale il soggetto può risultare abile oppure inabile, mentre nel caso del punto di vista “aperto/chiuso” è in gioco uno schema di valutazione non meccanico né biologico degli effetti prodotti dall’energia del soggetto. In questo caso, infatti, il soggetto manifesta la propria forza istituente per cui gli effetti così prodotti devono potersi prefigurare a partire almeno da un suo profilo antropologico e dunque non metafisico.

Leonardo Bianchi

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