Quando Cow Clicker scoperchiò il vaso di Pandora di Facebook

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C’è una storia a proposito della raccolta dati sugli iscritti a Facebook che probabilmente non tutti conoscono.

cms_10527/2.jpgIan Bogost, informatico americano esperto nel campo dei videogiochi, tra il 2010 e il 2011 pensò di creare un’applicazione chiamata “Cow Clicker” e di testarla direttamente su Facebook. Nel 2010 il social oggi più abitato al mondo era ben diverso da come siamo abituati a conoscerlo, vi era meno interazione tra gli utenti ed era maggiormente invaso da offerte per i suoi utenti di videogiochi alla stregua di Pet Society e FarmVille. A Bogost nacque così l’idea di realizzare un’app il cui scopo era prendere in giro proprio quei meccanismi utilizzati allora per indurre le persone iscritte a un social a una sorta di dipendenza dalle sorti di animali da fattoria. L’invasione delle “mucche virtuali” di Cow Clicker (un gioco all’apparenza in versione beta basato sul meccanicistico e semplicistico cliccare su mucche digitali) ottenne, al di là delle più rosee aspettative, un grande successo sugli utenti di Facebook, tanto da permettere a Bogost di ottenere inaspettatamente grandi quantità di dati sensibili dei giocatori.

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Il gioco mostrava una mucca sulla quale si poteva cliccare sino a un certo numero di volte al giorno, facendola in questo modo muggire e guadagnando così un click come ricompensa. I punteggi mano a mano ottenuti dai singoli partecipanti, poteva poi essere condiviso con altri amici e con altre mucche, cosa che rese l’app molto popolare. La storia di quello che era partito come un esperimento ed è poi diventata una vera e propria critica sui profondi effetti comportamentali di strumenti come Facebook, abili nell’agire sugli stimoli mentali delle persone in maniera significativa, venne raccontata dallo stesso Bogost sull’Atlantic, una prestigiosa rivista statunitense.

cms_10527/4.jpgCow Clicker è forse stato l’antesignano dello scandalo Cambridge Analytica scoppiato qualche tempo fa, ovvero è stato il racconto più vicino su come un semplicissimo esempio di cosiddetta gamification possa essere usato per misurare il coinvolgimento dell’utente social. Applicazioni all’apparenza innocue e spesso dall’aspetto estetico scarso, sfruttano la potenza intrinseca dei giochi nel motivare e incitare alcuni comportamenti umani. Il caso Cow Clicker è la dimostrazione di come si possano attingere notevoli quantità di dati dagli utenti senza che quest’ultimi ne siano pienamente consapevoli.

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La gamification agisce nel senso di mettere in moto vere e proprie macchine culturali algoritmiche in grado di tirar fuori forme di valore agendo sulle interazioni con gli utenti e sulla ridefinizione delle regole sociali. La scoperta di Bogost, iniziata casualmente e poi trasformatasi in una specie di rituale da parte degli utenti, ci insegna molte cose che per distrazione o per disinteresse ignoravamo sulla funzionalità della rete ma una su tutte emerge e si fa spazio: le piattaforme algoritmiche definiscono il significato delle nostre influenze sociali e ci spingono alla coazione a ripetere sempre le stesse azioni per, in seguito, illuderci di darci la possibilità di fare cose più interessanti e gratificanti.

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La morale, se di morale vogliamo parlare, è che a un semplice gioco come Cow Clicker o come ad altri sulla stessa scia, venivano gratuitamente offerti e messi a disposizione migliaia di dati sugli utenti iscritti a Facebook, dando la possibilità a Bogost come ad altri sviluppatori, di ottenere dati personali, profili e interessi. Se nel 2010, l’anno del lancio di Cow Clicker, era possibile ottenere tramite Facebook informazioni come nome, genere, reti e foto del profilo, così come altri dati più personali come la posizione geografica, lo stato della propria relazione, i “Mi piace” e molto altro, qualche anno più tardi l’azienda di Zuckerberg decise di regolare le impostazioni sulla privacy e sui dati personali limitando le possibilità di accesso ad alcune informazioni da parte delle app. Rimane però il problema che se è vero che una buona parte di cosa condividere o meno sia rimasta in mano agli utenti, è anche vero che non sempre essi sono informati a sufficienza e sono poco consapevoli delle loro decisioni, un limbo in cui ha proliferato poi il caso Cambridge Analytica.

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Rimane dunque la netta impressione dell’irrimediabilità di richiudere il vaso di Pandora ormai aperto sul tema della privacy. Lo spazio d’azione algoritmico e computazionale è divenuto così complesso e fuori dalla nostra portata da rendere gli sviluppatori e gli ingegneri applicati nelle strutture della new economy, nuovi stregoni in grado prepararci pozioni magiche con un impatto profondo sul significato e sul comportamento di miliardi di persone.

Andrea Alessandrino

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