Quando l’Italia ce la fece da sola... o quasi

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Di anni da quella crisi che sconvolse l’economia mondiale, con il crollo di Wall Street, ne sono passati molti. Era il 1929 e l’Italia, da second comer, correva per agganciare la Gran Bretagna, leader indiscusso del mercato industriale post rivoluzionario. La crisi nazionale di fine ’800 era stata arginata grazie alle riforme e allo sviluppo sostenuto dalle nuove banche miste che portarono, nell’età giolittiana, a un decollo senza precedenti, noto agli economisti come take off. Sarà stato per la voglia di guardare avanti o per l’entusiasmo delle prime tecnologie, che l’Italia si lasciò appena sfiorare dal vento americano di burrasca, protetta dalle politiche di chiusura fasciste che alla crisi opposero uno Stato imprenditore, proprietario di una parte del sistema bancario e industriale. Com’è logico, il fascismo determinò l’allontanamento dal centro del sistema economico mondiale e ci vollero gli anni ’50 per invertire la tendenza, grazie al ruolo assunto dagli Stati Uniti che introdussero il Piano Marshall per riavviare il circuito industriale e stabilizzare l’economia europea.

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Erano gli anni del benessere nei quali il senso di fiducia innalzò notevolmente la propensione all’acquisto. L’Italia, da paese povero era diventato un paese ricco. Nella terra del sole e del mare si coltivava, si produceva, si studiava, si costruiva e si sviluppava tanto l’industria privata quanto quella pubblica. Si arrivò così, con le gonne più corte e i pantaloni a zampa d’elefante, alla stagflazione del ’73. L’OPEC aumentò il prezzo del petrolio al punto che l’industria fu costretta a fermare le sue macchine e il costo della vita crebbe improvvisamente.

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Eppure l’Italia non arretrò, consolidando il primato per tutto il corso degli anni ’80, segnati dalla fortunata e competitiva svalutazione della lira e dal notevole incremento del debito pubblico destinato, negli anni a venire, ad assumere connotati patologici. Accadimenti quali Tangentopoli, la caduta del muro di Berlino e la crescita dei BRICS segnarono l’abbandono delle idee keynesiane in favore di un ritrovato liberismo che, la storia economica insegna, non ha mai funzionato.

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Ad osteggiarlo un tempo fu John Maynard Keynes (1883-1946) che contrappose al libero mercato, una teoria basata su investimenti pubblici, tassazione progressiva e protezione sociale. Keynes asseriva che il livello di produzione di una Nazione, il suo PIL e di conseguenza l’occupazione, sono determinati dalla domanda, da cui dipende la produzione. Per incrementare PIL e occupazione bisogna dunque sostenere la domanda dell’intera Nazione (domanda aggregata).

cms_3638/foto_5_.jpgSe "Domanda aggregata è = a Consumi + Investimenti + Spesa Governativa + Esportazioni – Importazioni", per incrementarla occorre agire sui consumi, diminuendo le tasse della classe più povera che tendenzialmente fa circolare il denaro (contrariamente a quella ricca che tende al risparmio e all’acquisto dal mercato di nicchia). L’aumento degli investimenti si raggiunge, diminuendo il tasso di interesse sui prestiti, mentre un’azione su esportazioni e importazioni, la si può mettere in atto, decrementando il valore della moneta interna rispetto a quelle estere. Peccato però che l’Euro non consenta ampi spazi di manovra, impedendo il ricorso alla svalutazione.

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E peccato anche che la BCE, a differenza delle altre Banche centrali, abbia quale obiettivo il solo contenimento dell’inflazione. Non può, come la FED, attraverso i tassi d’interesse e l’incremento dell’offerta monetaria, agire sulla crescita e sull’occupazione, prestare denaro agli Stati membri o finanziare il debito pubblico, stampando nuova moneta. L’Unione Europea, nata da un progetto di crescita e stabilizzazione, appare oggi come una realtà fortemente squilibrata tra centro e periferia. Se la Germania è diventato un grande esportatore, le periferie sono sempre più in sofferenza, gravate dai rigidi precetti di Maastricht e del fiscal compact.

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Ma se la Cancelliera d’acciaio quelle regole è riuscita a piegarle agli interessi della sua Nazione, perché mai l’Italia non potrebbe farlo anch’essa, invece di cedere a una regressione che inevitabilmente condurrà a una crisi senza precedenti? Keynes, guardando all’interno, avrebbe suggerito allo Stato di assumere le redini dello sviluppo, incentivando i lavori pubblici come antidoto alla crisi. Di cose da fare ce ne sarebbero... in un’era che vede la coesistenza di due paradigmi principali, quello energetico e quello delle information technologies, l’investimento pubblico, diretto o indiretto, nelle rinnovabili e nella banda larga potrebbe far partire un nuovo ciclo produttivo. Eh si perché gli investimenti pubblici non solo aumetano la domanda, ma creano lavoro, rimettendo in moto l’economia nazionale, secondo un meccanismo chiamato appunto "moltiplicatore keynesiano" che assicura un ritorno allo Stato in termini di utili e tassazione.

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Va molto di moda imputare alla spesa governativa l’innalzamento del debito pubblico. Ciò accadde, come poc’anzi accennato, negli anni ’80, dietro i quali è lecito oggi pensare potesse nascondersi una volontà di innescare un meccanismo che avrebbe condotto a ridimensionare il ruolo dello Stato nell’economia. La buona spesa pubblica tende a ripagarsi da sola ed è l’unica possibilità che si ha per uscire dalla crisi.

Questo avrebbe detto Keynes.

Alla sua teoria aggiungo quella personale che vede accanto alla riaffermazione del modello "Stato imprenditore", la crescita industriale sostenuta da un sistema misto bank e market oriented, favorendo l’intervento indiretto dello Stato nei confronti delle imprese private. Ciò contribuirebbe a riequilibrare la distribuzione delle ricchezze, favorendo nuovi investimenti e realizzando l’innovazione sostenuta in grado di far ripartire l’economia.

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Elemento essenziale in presenza di crisi è garantire l’investimento. Paesi costretti all’austerità hanno assistito al peggioramento della propria situazione, nonostante il pensiero neoliberista la veda come "espansiva". L’impiego produttivo della spesa pubblica trainerebbe attraverso commesse e partecipazioni, la mobilitazione di capitali industriali privati verso nuove tecnologie e ricerca, arrestando il processo di recessione che, in clima di austerità, non potrebbe che incrementare la sua velocità.

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Se l’Italia dunque, sull’esempio tedesco, puntasse i piedi in Europa e diminuisse il peso del debito, investendo, in sostegno alle imprese, la spesa pubblica; se si facesse promotrice di un intervento modificatorio della BCE volto principalmente all’emissione di moneta; se lavorasse alla trasformazione dell’Europa in un insieme di Stati uniti sostenuti da un governo centrale; se, guardando in casa propria, applicasse una tassazione differenziata in base al reddito e operasse una distinzione tra banche d’affari e banche di credito; se sostenesse l’occupazione attraverso una politica di maggiori sgravi fiscali, tornerebbe non solo a farcela da sola... ma determinerebbe la ripresa dell’intera economia europea.

Silvia Girotti

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