RESPONSABILITA’ IN PAUL RICOEUR E VULNERABILITA’ IN JUDITH BUTLER

L’opinione del filosofo

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“Quando il dolore è qualcosa da temere, le nostre paure possono portarci a liquidarlo frettolosamente, ad allontanarlo in nome di un ricorso all’azione che dovrebbe restituirci quanto abbiamo perso o riportare il mondo a uno stato precedente, a rafforzare l’idea che prima vigesse un ordine”. (J. Butler)

“Il fragile è qualcuno che conta su di noi; egli attende il nostro aiuto e le nostre cure; confida nel fatto che noi faremo questo. Questo legame di fiducia è fondamentale”. (P. Ricoeur)

L’ontologia della vulnerabilità di Judith Butler

cms_28846/f1.jpgIl punto di partenza del pensiero di Judith Butler è la sofferenza patita dal nostro corpo per volontà di un altro corpo che ci conduce a un’esperienza di dolore – inteso come ciò che ci rende consapevoli della nostra interdipendenza e dell’inevitabile condivisa vulnerabilità – che configurare un’ontologia della vulnerabilità, opposta all’ontologia individualistica della modernità e la pretesa individualista di un sé impermeabile all’alterità.

cms_28846/f2.jpgIn “Giving an account of Oneself” Judith Butler asserisce che siamo esseri esposti all’altro nella nostra vulnerabilità e singolarità, ma che, senza l’esposizione all’oltraggio e alla violenza, non potremmo rispondere all’Altro che ci interpella e invita ad assumercene la responsabilità.

La responsabilità, infatti, non dipende dalla volontà, ma è il risultato dell’inevitabile vulnerabilità che ci rende capaci di rispondere all’Altro. La violenza rivela la nostra strutturale vulnerabilità fisica, in un’esposizione privata e pubblica all’azione dell’altro dalla quale non possiamo fuggire e che ci rende consapevoli di non essere individui isolati.

cms_28846/f3.jpgMentre siamo esposti alla volontà dell’altro, in una situazione che non scegliamo, creiamo le condizioni per assumere la responsabilità di un incontro etico. Tuttavia, affinché la vulnerabilità possa entrare nella dinamica dell’incontro etico, essa deve essere percepita e riconosciuta: non c’è alcuna garanzia che questo avvenga, ma quando avviene, il riconoscimento può trasformare il significato e la struttura stessa della vulnerabilità. La vulnerabilità infatti ha una “forma” che dipende da norme di riconoscimento preesistenti.

La tesi di Butler è che questa struttura etica – costruita sulla vulnerabilità – sia divenuta sempre più cruciale man mano che la globalizzazione ha eroso i confini di presunte comunità politiche, non di rado fondate su un’uniformità culturale costruita violentemente. Spesso, nei grandi flussi di popolazioni e nel pluralismo culturale ci troviamo di fronte all’esigenza di instaurare e mantenere relazioni con soggetti che non avremmo scelto di incontrare.

Ma cosa succede quando siamo chiamati a una relazione etica con chi non condivide il nostro orizzonte culturale e comunicativo? Come pensare a un riconoscimento della reciprocità che non sia esclusivamente tra simili?

Butler, nell’ambito dell’ontologia della vulnerabilità, intravede una risposta nell’evento che inaugura una nuova epoca: l’11 settembre 2001. In quell’occasione gli Stati Uniti hanno subito, all’interno dei loro confini, la violenza di una volontà esterna, l’azione dell’altro; si sono scoperti vulnerabili al pari di coloro che fino a quel momento avevano subito la loro violenza imperialista. Una vulnerabilità intollerabile agli occhi della prima potenza al mondo: dieci giorni dopo la tragedia Bush dichiarò che era il momento di smettere di piangere i morti e di sostituire il dolore con azioni decisive.

E tuttavia, si chiede Butler, l’esperienza della vulnerabilità vissuta dal Primo Mondo non potrebbe portarlo a riconsiderare la profonda ingiustizia della distribuzione della vulnerabilità su scala globale? Se il rimanere esposti alla forza intollerabile del dolore senza cercare di risolverlo con la violenza, il mantenere il senso della perdita – quindi della morte come possibilità concreta – ci portasse a recuperare il senso della vulnerabilità umana, della nostra responsabilità collettiva per la vita l’uno dell’altro?

Proprio questo potrebbe -nella visione di Butler- essere un punto di partenza: riuscire a trasformare la preoccupazione individuale nell’attenzione verso la vulnerabilità. Infatti, dalla preoccupazione per la comune vulnerabilità umana, potrebbe emergere il principio in base al quale ci impegniamo a proteggere gli altri dalle stesse sofferenze che noi abbiamo patito.

“Fare esperienza del dolore – afferma Butler - tradurlo in una risorsa politica, non significa rassegnarsi all’inazione, ma può trasformarsi nel lento processo attraverso il quale riusciamo a sviluppare un momento di identificazione con la sofferenza stessa. Il disorientamento proprio del dolore, colloca l’io nell’ignoranza”.

Ricoeur e Butler

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Paul Ricoeur

Collocando in un dialogo a distanza Ricoeur e Butler, vediamo che per entrambi l’evento del lutto è fondamentale per raggiungere una maggior comprensione del proprio sé: se in Ricoeur la morte dell’altro mi rende consapevole della sua irrimpiazzabilità, per Butler il “sé” è costituito in uguale misura da coloro le cui morti rimpiango e da quelle morti senza nome e senza volto che compongono il malinconico sfondo del mio mondo sociale.

Questo intreccio a distanza tra i pensieri dei due filosofi si fa ancor più interessante nel momento in cui la Butler prende le distanze sia dalla “violenza etica” dovuta all’altro che mi si impone come identità soverchiante – il riferimento all’etica di Lévinas è evidente – che in merito alla necessità che alla questione dell’altro non venga data soluzione definitiva, escludendo l’alterità dell’altro.

cms_28846/f5.jpgNelle righe conclusive di “Sé come un altro”, Ricoeur conferma la sua appartenenza al circolo ermeneutico e davanti ai molteplici significati dell’alterità dichiara: “Questa dispersione, in fin dei conti, mi sembra convenire interamente all’idea stessa di alterità. Solo un discorso altro da se stesso conviene alla meta-categoria dell’alterità, pena il sopprimersi dell’alterità che diventerebbe medesima di se stessa”.

Per Ricoeur quello della responsabilità è un principio che noi scopriamo nello sviluppo di un sentimento dal quale siamo colpiti. Ci sentiamo sollecitati dal fragile, spinti a fare qualcosa, a prestare soccorso: questo sentimento consiste soprattutto nel renderci coscienti di una situazione esistente.

L’altro può contare su di noi ed aspettarsi che manteniamo le promesse solo se possiamo riunire i nostri atti intorno a noi stessi. Per quanto la capacità di designare se stessi come fautori dei propri atti, affermata nel rapporto di sé e sé (io mi…, tu ti…, egli si…), la fiducia del fragile ci richiama al fatto che e’ sempre un altro a renderci responsabili.

“Un altro, contando su di me – riflette Ricoeur - mi rende responsabile dei miei atti. Diciamo che questa capacità chiede di essere risvegliata per diventare reale e attuale, ed è nell’ambito dell’alterità che diventiamo effettivamente responsabili. Ciò su cui l’altro conta è proprio ciò su cui io manterrò la mia parola, per cui io mi comporterò come un agente autore dei miei proprio atti”, affermando così l’idea che fragilità e responsabilità si richiamano l’una all’altra, passando, come direbbe Hegel, dall’una all’altra.

Nel suo intervento intitolato “Le sfide e le speranze del nostro comune futuro”, in pagine che sembrano afferrare il senso sfuggevole del nostro tempo, Ricoeur precede la Butler nell’analizzare lo specifico rapporto tra la responsabilità e il fragile, quest’ultimo inteso da Ricoeur come ciò che è allo stesso tempo debole e minacciato dai colpi della violenza storica.

Se il penetrante discorso intorno alla derealizzazione dell’Altro conduce a non considerare alcune vite all’interno della categoria di umano, per cui se contro queste vite viene perpetrata violenza, non si considera la ferita e l’annientamento di queste esistenze, negate in partenza perché fuori dalla cerchia del proprio dolore, del proprio lutto, della propria memoria, Butler fa emergere una lampante affinità con il pensiero del sé e dell’altro da sé di Ricoeur:

“Credo che l’altro in relazione a me sia chiamato in causa nel processo stesso della mia costituzione, e che l’estraneità a me stesso sia, paradossalmente, l’origine del mio legame etico con gli altri. Non conosco completamente me stesso, perché parte di quello che io sono è la traccia enigmatica dell’altro”.

Non c’è posto per l’empatia husserliana in questo disegno antropologico: la sollecitudine ricoeuriana non mira alla conoscenza dell’altro sulla base di ciò che l’io conosce di sé, ma è proprio l’estraneità a se stessi che è all’origine del legame etico con gli altri.

Bibliografia

J. Butler, Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, postmediabooks, Milano 2001

J. Butler, Giving an account of Oneself, Fordham University Press, New York 2005

C. Lo Iacono, Parole che contano: vulnerabilità, narrativa e obbligazione in Judith Butler, Consecutio Rerum. Rivista critica della Postmodernità, 2013.

C. Caterina, Riconoscersi vulnerabili, scampati, simili. Convergenza di pensiero tra Judith Butler e Jan Patocka, Consecutio Rerum. Rivista critica della Postmodernità, 2013, p.6

P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 2015

P. Ricoeur, Il Conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Como 2007

P. Ricoeur, Persona, comunità e istituzioni. Dialettica tra giustizia e amore, ECP, Firenze, 1994

F. Riva, Emmanuel Lévinas, Gabriel Marcel, Paul Ricoeur. Il pensiero dell’altro, EdizioniLavoro, Roma 2010

D. Iannotta, Paul Ricoeur in dialogo. Etica, giustizia, convinzione, Effatà editrice, Torino 2008

Gabriella Bianco

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