Rileggendo POESIA – DARIO VILLA
"scusami mamma…"
“Dovrei ritrarmi, a onor del vero, e imprigionare in pochi tratti la cosa che si dice mi somigli. Ma tutto ciò che posso affermare è che da trentacinque anni mi trovo di fronte al medesimo specchio, e che i contorni di quel grumo di mobile perplessità che dovrebbe, con buona approssimazione, costituire appunto il mio tema, si fanno sempre più sfumati, e stratificano in sé non soltanto il vissuto e il rimosso, ma anche l’altro, estraneo, l’avverso: ciò che comunque, con o senza di me, è stato è o sarà, o non sarà mai stato: dal primo glorioso protozoo all’ultima e dura a morire resipiscenza metafisica.”
Dario Villa (1953-1996) era un genio. Comparve ai lettori di POESIA nel n. 12/1 nella rubrica l’autoritratto: l’impressione che può averne avuto (e averne tuttora) il lettore è quella di un autore che non parlava tanto di se stesso ma per se stesso. Impressione confermata, ad anni di distanza, anche da https://www.pangea.news/dario-villa-ritratto/, che così lo ritrae: Dario Villa, puro ispirato, bestia sacra, Orfeo col papillon, dandy gnostico, è tutto in quella foto scattata da Antonio Ria. Seduto di sbieco, con il gomito destro sul ciglio della sedia al fianco; maglia con scollo a V, camicia, nobiltà felina; guarda a bocca semiaperta qualcosa, di lato, sul fondo, al di là, forse una rissa d’angeli; nella mano impugna, visibile, una carta, strappata, ha scritto l’ennesima poesia, credo, sul palato del caso. Nato a Milano nel 1953, morto giovane, a 42 anni, Dario Villa mi fu donato da Girolamo Melis, maestro di gioie inquiete. Amava frequentarlo, se lo portava con sé nei consigli d’amministrazioni di pluridotati capi d’impresa. Villa, il poeta, che villeggiava tra la verità e il frainteso, portava scompiglio nel consiglio, cioè il destino dove è la stasi del profitto.
Che genio. Da assoluto ispirato, non era adatto alla dissolvenza – quella che avvolge un po’ tutti i poeti, oggi –, preferì la sparizione. Trentenne, esordì con la placca Lupsus in fabula (1984), lo riconobbero – col Mondello opera prima – e lui si decimò, dandosi alla macchia. Era stato scoperto, lince rara, ancora, nel volume Poesia Uno edito da Guanda, era il 1980.” Disse di lui Giovanni Raboni: “Credo che pochissimi poeti italiani, negli ultimi decenni del secolo appena trascorso, siano stati così costantemente, oserei dire così insistentemente frequentati dalla grazia come l’autore di questo libro”. Nessuno diede credito a quel credo: di Villa non c’è traccia tra le nostre macerie editoriali, né nelle antologie di pregio.
D’altronde è come se fosse, la sua poesia, sempre un passo avanti, sempre un po’ altrove, un po’ oltre rispetto a se stessa o, per essere precisi, al sentimento (…) della propria contemporaneità.” Dario Villa così proseguiva il suo autoritratto: “Avrà pure ragione il lettore (cioè il borghese occidentale…) quando ancora domanda al poeta la piacevole garanzia del senso. Ma proprio perché il mondo intero imborghesisce, e nel senso peggiore, noi questa garanzia gliela vogliamo sottrarre.” Era passato in un batter d’occhio dall’io al plurale maiestatis. Ma non è questo il punto: si stava presentando a una rivista come se avesse dovuto scrivere un trattato. Eppure era un genio, lo ripetiamo: catene lessicali sul filo del bisticcio, tessuto fonico prorompente, stralunato, caleidoscopico, quasi paranoide.
(https://www.andreatemporelli.com/2017/09/14/poeti-contemporanei-dario-villa/)
Cosa ci rimane di lui, a più di vent’anni dalla morte, oltre ai suoi versi (splendido quello “scusami, mamma” che pubblichiamo) poco riproposti anche sui social? Quattro righe su Wikipidia.
scusami, mamma, ma ti pare il caso
di visitarmi in sogno, interferendo
tra l’altro con un incubo squisito,
solo per dirmi che la vita è bella
perché è varia ma a volte è un vero schifo
e che la carie scava
trafori nella notte? non concordo:
la mia vita è una nave in avaria
sballottata da un mare che spalanca
fauci affatto sdentate; quanto al resto,
la mia bocca è un ammasso di macerie,
un covo di tristezze:
c’è rimasto ben poco da cariare
(e adesso, smamma, e sappi che odio e amore
sono quelli di sempre; grazie a te,
ombra vagante, d’ora in poi potrò
sognare acque serene e spaventosi
spazzolini da denti)
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