Rileggendo POESIA – GIOVANNI RABONI
La poesia e la critica (1988)

Il terzo numero di POESIA ospitò una (fondamentale) intervista a Giovanni Raboni, “La poesia e la critica”, appunto. Affinché il lettore possa disporre di notizie il più dettagliate possibili sulla biografia e la statura artistica (e umana) di Raboni (1932-2004) proponiamo il sito: https://www.giovanniraboni.it/Biography.aspx
“D. Perché ci sono così pochi critici di poesia e questi pochi quasi tutti poeti? (Domanda pertinente, forse oggi più di ieri! NdA) R. A colpire non è tanto il fatto che siano aumentati i critici-poeti, quanto il fatto che siano diminuiti o quasi scomparsi i critici non poeti; chi prenderà il posto dei Gargiulo, dei De Robertis, dei Bo, dei Contini, il cui lavoro ha accompagnato e non di rado guidato il lavoro dei poeti italiani fino alla cosiddetta terza generazione? A me sembra francamente di non vedere nessuna figura del genere,né fra i poeti né fra i non-poeti.” In sostanza Raboni asseriva che l’ambiente accademico di allora tendesse a rifiutare, forse per prudenza o per complesso di superiorità, o per incapacità il ruolo del critico militante. Ma l’assenza di un serio e costante discorso critico, alla lunga, può anche danneggiare la poesia.
“D. Cosa pensa dello spazio che quotidiani, settimanali e i mass media riservano alla poesia? R. Tutto il male possibile: meglio se non lo facevano, se non se ne occupavano affatto.” Si lamentava, qui, la mancanza di competenza, buona volontà, onestà, cultura. Si tendeva (e si tende) cioè a parlare soltanto di quello di cui si sta già parlando (gossip, TV, romanzi di successo – e oggi si potrebbero aggiungere i talk-show): logica conseguenza quella di fare disastri quando si parla di poesia. La cosa più deprimente non è tanto il silenzio, quanto il modo in cui il silenzio viene rotto. “E la recensione di chissà quale libro fatta chissà come per fare un favore a chissà chi non è meglio di niente ma peggio, molto peggio di niente, perché disinforma. I servizi sulla poesia sono tali da dissuadere i lettori dalla poesia”. È cambiato qualcosa da allora? Pensiamo di no, soprattutto quando Raboni fa riferimento all’esordiente amico dell’amico del vicedirettore o dello stesso recensore. Temiamo che la vexata quaestio degli amici degli amici – non soltanto in campo letterario e culturale, ma sociale, economico, politico – sia totalmente inemendabile, perché integrata indissolubilmente nel nostro costume.
Osserviamo tuttavia che oggi qualche iniziativa un po’ più strutturata è presente sui blog, dove la poesia si riprende lo spazio che giornali e TV le hanno sottratto (con qualche eccezione: Maurizio Cucchi sta curando una rubrica di poesia su Repubblica e Avvenire ha Agorà, una pagina molto interessante). Chi ha bisogno di musica, osservava Raboni, conviene vada a un concerto anziché chiudersi in una stanza a strimpellare orribilmente una chitarra; al tempo stesso diventare lettori è molto più facile e più utile che diventare poeti. Le istituzioni, la scuola, i media possono fare la loro parte. Basta volerlo.
“D. Esiste ancora un pubblico della poesia? R. Sì, nonostante tutto, credo di sì.”
Anche noi lo crediamo, o forse vogliamo crederlo. La poesia vive e vivrà, nonostante i movimenti, le conventicole, le autoreferenzialità troppo spesso ingombranti, se non addirittura deleteri.
Leggiamo infine una poesia di Giovanni Raboni, giocoforza attualissima giacché un poeta, non di rado, è anche un precursore. Figuriamoci poi se si chiama Giovanni!
Non sospendi un terremoto, non fermi
Non sospendi un terremoto, non fermi
la deriva dei continenti; e uguale
successo avrà chi soffre il capitale
e per avversare i suoi non eterni
né imperscrutabili disegni sale
fiducioso su navicelle inermi
contro le sue corazzate, o in interni
sabotaggi s’avventura. Eh! a che vale,
colombelle mie? Tanto durerà
quanto deve, non un giorno di meno,
a nostro cupo scorno – ma nemmeno
uno di più. La festa si farà
senza di noi, poveri untori senza
pestilenza, solchi senza semenza.
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