SPECIALE 75 ANNI DELLA COSTITUZIONE - VI^ PARTE Giorgio Napolitano: perché non possiamo non dirci liberali International Web Post

SPECIALE 75 ANNI DELLA COSTITUZIONE - VI^ PARTE

Giorgio Napolitano: perché non possiamo non dirci liberali

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Giorgio Napolitano (1925-2023) è stato il primo Presidente della Repubblica eletto due volte, in una condizione straordinaria per la drammaticità di una situazione pesantemente condizionata dai mercati finanziari e da vincoli europei inesistenti nel passato. La novità, sin dal primo mandato, fu rappresentata dal fatto che nell’instabilità del quadro politico di riferimento, percepita pure a livello internazionale, anche fuori dai patri confini andò maturando un orientamento volto ad un’interlocuzione privilegiata col capo dello Stato, ritenuto un punto di riferimento sicuro, saldo ed affidabile.

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Il costante stimolo ad operare dato da Napolitano a Governo e Parlamento, col supporto di consigli, pareri e riflessioni, fu dovuto non ad una sua volontà prevaricatrice, bensì dalla progressiva auto-paralisi delle Istituzioni interessate. A fronte di ciò, è inconfutabile che in prosieguo tempo il capo dello Stato, come un timoniere alla guida di un vascello costretto a “navigare a vista” tra le nebbie, si sia trovato a dover seguire – suo malgrado – una rotta non sempre lineare, vieppiù nelle acque perigliose dell’economia.

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Sin dalla giovinezza sviluppò nell’impegno politico, una poliedricità non comune anche nell’approccio con la realtà delle Istituzioni, il che gli consentì in seguito di padroneggiare la macchina parlamentare nella perfetta conoscenza dei regolamenti, delle leggi, delle prassi e – soprattutto – della Costituzione, di cui in seguito il destino lo avrebbe chiamato ad essere il supremo garante.

cms_31872/4.jpgNel dicembre 1945 dopo un percorso “non privo di dubbi”, si era iscritto al Partito comunista italiano “sulla base di un impulso morale, assolutamente non sulla base di una maturazione ideologica”, essendo stato colpito dalle condizioni di estrema miseria della sua Napoli. Tanti anni dopo iniziò a comprendere “ alcuni elementi del pensiero politico e istituzionale liberale e liberal-democratico, che non collimavano con la visione del Partito comunista”. Il 10 maggio 2006 fu eletto Presidente della Repubblica, alla qual carica venne confermato il 20 aprile 2013.

In ordine alla sua dimensione personale, nel corso di un’intervista ad Eugenio Scalfari, affermò: “Non possiamo non dirci liberali perché storicamente, anche nel passaggio dal liberalismo alla democrazia sono stati preservati i valori fondamentali della fase di sviluppo liberale, della storia moderna e contemporanea, riconosciuti fondanti di qualsiasi prospettiva di trasformazione della società si possa immaginare”. Quanto al discorso sulla fede, Napolitano disse in seguito di aver ricevuto una giovanile educazione religiosa, dalla quale si era in seguito distaccato calandosi “interamente in un’altra dimensione di vita, politica, culturale, istituzionale”.

Ci si poteva chiudere nella convinzione che non si era stati toccati da “un lume di grazia”; ma affermò al riguardo che il discorso non doveva “finire lì”. Il nuovo Presidente fu definito come un uomo notevole, dotato di grande cultura, di una forte intelligenza politica e di aplomb da lord inglese; insomma un Capo dello Stato lontano dalla retorica e soprattutto dal populismo, abituato a gesti sobri, all’autocontrollo, ad un’interpretazione fortemente istituzionale del suo ruolo

cms_31872/6.jpgIn occasione del messaggio contestuale al giuramento innanzi al Parlamento, tracciò gli obiettivi primari che avrebbe seguito nel corso del mandato: coesione nazionale, rilancio dell’Europa unita, lotta alla criminalità interna come al terrorismo internazionale, equilibrio tra i poteri dello Stato. Il fatto che in Parlamento si fosse instaurato un clima di pura contrapposizione e di incomunicabilità, doveva considerarsi “segno di un’ancora insufficiente maturazione nel nostro Paese del modello di rapporti politici e istituzionali già consolidatosi nelle altre democrazie occidentali”. Desiderò in particolare evocare il diritto costituzionale al lavoro come base della Repubblica democratica, peraltro ancora lontano dal realizzarsi per tutti, data la precarietà e la mancanza di garanzie. Il rilancio della nostra economia era legato alla giustizia sociale, contro le accresciute disuguaglianze e le nuove emarginazioni: in sintesi – affermò – c’era bisogno di più giustizia e coesione sociale. L’Europa andava considerata “per noi italiani una seconda Patria”, dopo che si era portata a compimento la più grande impresa di pace del Novecento nel cuore del Vecchio Continente, realizzandosi uno straordinario e duraturo avanzamento economico e sociale, civile e culturale nei Paesi che ne erano entrati a far parte.

Nel primo messaggio di fine anno agli italiani, riaffermò la necessità di un clima più sereno e costruttivo, onde scongiurare la disaffezione dei cittadini verso la politica. Nel 2007, in occasione della Festa del lavoro stigmatizzò l’aumento della precarietà, peraltro “senza anacronistiche nostalgie di più forte rigidità e di continuità garantita del rapporto di lavoro”.

Nel corso dell’intervento alla seduta del Consiglio superiore della Magistratura nel 2008, Napolitano affermò il dovere dei pubblici amministratori a confrontarsi correttamente con la Magistratura chiamata al controllo di legalità, con lo speculare dovere di quest’ultima di evitare spettacolarizzazioni mediatiche, magari al fine di “toccare i potenti, anche contravvenendo a regole inderogabili”.

Tra le riforme costituzionali possibili, citò l’abbandono del Bicameralismo e l’istituzione di una Camera delle Regioni o delle Autonomie, in un quadro di doverosa solidarietà di quelle più ricche verso le più povere, a loro volta chiamate ad un uso responsabile delle risorse pubbliche a loro disposizione.

Nel 2010 sottolineò la priorità da accordare, nei lavori parlamentari, all’approvazione finale delle leggi di stabilità e di bilancio, date le difficili vicende finanziarie internazionali; mentre l’anno successivo, in merito al decreto Milleproroghe, censurò l’aggiunta in sede di conversione di norme diverse da quelle previamente approvate e verificate, il che sviliva il ruolo del controllo presidenziale, aggiungendo un’altra patologia a quella del ricorso abnorme alla decretazione di urgenza, in mancanza dei relativi presupposti.

cms_31872/7.jpgParticolarmente significativo fu l’impegno di Napolitano per una degna celebrazione del 150° anniversario dell’Unità, evocandone le prime fondamenta nella coesione conseguita grazie all’impulso della lingua, della letteratura e della cultura. Il suo mandato venne ad acquisire una crescente incisività sui tre poteri tradizionali, sicché iniziò a parlarsi di Repubblica tendenzialmente “presidenziale”, come nel caso del sostegno fornito dal Capo dello Stato alle misure dettate da Bruxelles e dalla Bce all’Italia nell’agosto 2011 in tema di rigore economico, alla luce delle quali avvenne la discussa modifica dell’articolo 81 della Costituzione concernente l’equilibrio di bilancio.

I governi affidati a Mario Monti e poi ad Enrico Letta, furono etichettati come “Governi del Presidente”; ma in realtà non vi era stato il prevalere della decisione presidenziale nella scelta del premier, bensì un previo orientamento del Parlamento affinché il Capo dello Stato si facesse egli stesso carico di una designazione in grado di coagulare il maggior numero di consensi possibile. La vicenda più delicata del primo mandato di Napolitano rimase, senza ombra di dubbio, quella legata alle trattative Stato- mafia al vaglio della Procura di Palermo, nel corso delle quali venne indagato l’ex presidente del Senato Nicola Mancino, che aveva effettuato alcune telefonate al Quirinale per un eventuale interessamento presso la Magistratura circa la sua posizione processuale. La Procura non trovò elementi di rilevanza penale nelle intercettazioni in parola e dispose la distruzione dei relativi nastri, con seguito di polemiche politiche e dottrinali.

Nel 2013 Napolitano fu rieletto con suffragio plebiscitario dalle maggiori forze presenti in Parlamento, che nell’occasione sembrarono aver superato – almeno una volta – gli insormontabili dissidi e le contrapposizioni che avevano portato il Paese alla paralisi. Il discorso del secondo insediamento, pronunziato il 22 aprile 2013, fu di una sferzante fermezza, innanzi ad un uditorio surreale che applaudiva unanime innanzi ai rilievi critici dell’oratore rivolti proprio agli astanti, che ricordò loro “una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità”.

Nell’ottobre 2013 per la prima volta – avendo sempre in precedenza fatto ricorso alla moral suasion – rivolse un “messaggio alle Camere” sulla questione carceraria, per richiamare i parlamentari sulla sua drammatica urgenza, partendo dal fatto di eccezionale rilievo costituito dal pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo, avverso le tantissime violazioni del divieto di trattamenti inumani verso i detenuti, cui andava ad aggiungersi la durata irragionevole dei processi.

Insediatosi il governo Renzi (2014), uno degli obiettivi principali da raggiungere era quello della riforma del sistema elettorale, in merito al quale il Capo dello Stato ritenne di poter ancora esercitare il suo potere di moral suasion. Al crepuscolo di un mandato ab origine accettato per un periodo breve, sperando che potessero risolversi in tutto o in parte i problemi evidenziati durante il noto discorso del suo secondo insediamento, Napolitano dovette sconsolatamente prendere atto di quel mancato rinnovamento della politica che aveva percepito come una delle emergenze prioritarie.

Era più che mai urgente reagire al qualunquismo dell’antipolitica, denunciandone le faziosità, i luoghi comuni, le distorsioni, impegnandosi in pari tempo non solo nelle riforme istituzionali e politiche necessarie, ma anche in un’azione volta a riavvicinare i giovani alla politica – valorizzando anche del ruolo insostituibile dei partiti – la qual politica non doveva risolversi nella routine burocratica, nel carrierismo personale nella miserevole compravendita di favori, “nella scia di veri e propri circoli di torbido affarismo e sistematica corruzione”.

Avendo sempre tenuto in speciale considerazione il fattore “cultura”, sia come elemento fondante della dell’unità nazionale, che come supporto indispensabile della coesione, ancorché – o forse è il caso di dire a maggior ragione – da lui stesso fortemente voluto e sostenuto: non ne condivise i tagli lineari e gli interventi che apparvero frettolosi e non del tutto ragionevoli.

Nella circostanza del discorso del 4 febbraio 2014 al Parlamento europeo di Strasburgo, il Capo dello Stato, notò che negli ultimi 7 anni era maturata una crescente disaffezione verso l’Ue presso larghi strati della popolazione nella maggior parte dei Paesi membri, per il peggioramento delle condizioni di vita e dello status sociale, con l’aumento della disoccupazione e l’impennata drammatica di quella giovanile in particolare.

Si rendeva ora perciò necessario un cambio di rotta, per un rilancio della crescita e dell’occupazione, non essendo più praticabile una politica di austerità ad ogni costo, perseguita nella necessità del riequilibrio, a tappe forzate, della finanza pubblica in ciascun Paese dell’area.

La grave carenza politica sul piano dell’informazione e del coinvolgimento dei cittadini nella formazione degli indirizzi e delle scelte dell’Unione, percepita riduttivamente nella sua dimensione “economicistica”, rischiava – avvertì – “di farci perdere la nostra identità storica, il nostro retaggio culturale, il nostro esempio e modello di integrazione sovranazionale quale comunità di diritto, di economia sociale di mercato”.

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Nell’ultimo messaggio augurale di fine d’anno, dopo aver premesso la doverosità della sua uscita di scena per l’età assai avanzata, auspicò un clima di serenità per l’elezione del successore, dove le forze politiche erano chiamate a fornire una prova di maturità e responsabilità nell’interesse del Paese, in quanto “destinata a chiudere la parentesi di un’eccezionalità costituzionale”.

Nel consuntivo generale dell’impegno profuso nel corso dei 9 anni al Quirinale, tenne a ricordare il suo costante sforzo per rafforzare l’unità nazionale, per garantire all’Italia stabilità politica e continuità istituzionale, e per affrontare su larghe basi unitarie le più gravi patologie di cui il nostro Paese ancora soffriva, quali la criminalità organizzata, operante anche in campo economico; nonché una corruzione capace di insinuarsi in ogni piega della realtà sociale e istituzionale. Concluse il discorso con una manifestazione di consapevole ottimismo, invocando la diffusione di un sentimento di generale responsabilità e del senso del dovere, della legge e della Costituzione: “in sostanza senso della nazione”, sulla falsariga dello spirito che aveva animato i protagonisti del periodo della ricostruzione postbellica.

Il 22 settembre 2023 ha terminato il suo percorso terreno, nella qual circostanza il presidente Mattarella ha rilasciato un’intensa dichiarazione, ricordandone la giovanile frequentazione dello stimolante ambiente culturale napoletano, l’adesione alla causa antifascista e del movimento comunista, l’impegno per lo sviluppo del Mezzogiorno e delle classi sociali subalterne, sino poi alla convinta opera europeistica e di rafforzamento dei valori delle democrazie, dello sviluppo sociale,della pace, del progresso dell’Italia e di un’Europa sempre più autorevole ed unita.

cms_31872/10.jpgIl 24 settembre il Santo Padre, poco dopo le 13, con un gesto particolarmente significativo nella sobrietà rispettosa dei sentimenti dello Scomparso, giunto alla Camera allestita nella sala Nassirya, del Senato, innanzi al feretro rimane in raccoglimento silenzioso, pur senza fare il segno della Croce. Avvicina la vedova signora Clio e quindi viene accompagnato sulla sua sedia a rotelle innanzi al tavolino con il libro delle presenze e la foto dell’illustre Scomparso.

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Su di un grande foglio bianco scrive poche parole, espressive di una grande considerazione "Un ricordo e un gesto di gratitudine a un grande uomo servitore della Patria". Firmato: Francesco.

Al sottoscritto, autore di questo breve (e personale)ricordo dello scomparso Presidente, sia consentito evocare la parola del Signore che dischiude le porte del Paradiso anche a coloro che sono venuti a mancare senza il dono ed il conforto della Fede: “Non chiunque dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”.

Ed ancora, dal Vangelo, un altro passaporto per il Paradiso “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito?E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.”

Tito Lucrezio Rizzo

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