SPOT APPLE WATCH

Ovvero elogio della società della performance

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cms_22767/1.jpgCorrere, arrivare primi, non fermarsi mai, raggiungere gli obiettivi, soprattutto, essere performanti. Se c’è una cosa che abbiamo imparato negli ultimi anni e, in particolar modo, nel XXI secolo è l’essere sempre, come direbbe Floridi, onlife. Sono gli imperativi categorici a cui ogni giorno ognuno di noi, chi più chi meno, si adegua per rincorrere nuovi e stimolanti obiettivi imposti da un regime di vita a tratti insopportabile e dispendioso di energie non solo fisiche ma soprattutto mentali. Stress è diventata la parola maggiormente in voga nei discorsi quotidiani tra persone; essere stressati, sentirsi stressati, non rappresentano solo un senso di decadimento psico-fisico ma uno stato mentale, una forma mentis comune alla maggior parte degli abitanti del pianeta. Saranno gli effetti delle prospettive filosofiche e sociologiche fissate anni addietro da Bauman che preconizzava l’avvento della società liquida, caratterizzata da un’esperienza individuale e da relazioni sociali segnate da caratteristiche in continua decomposizione e ricomposizione, in modo sempre vacillante, incerto e, appunto, fluido. Sarà anche l’effetto congiunto dell’arrivo di emergenze non solo sociali ma anche sanitarie a farci sentire continuamente disorientati e nel non saper prendere decisioni giuste. Diventa allora importante per ognuno di noi costruirsi un porto sicuro nel quale trovare scampo da un arrembaggio totale come per esempio l’opportunità di aprirsi e aggiornare un proprio profilo social dove esternare urbi et orbi la propria visione della realtà e su cui condividere assieme a miliardi di altri utenti lo zeitgeist di una grammatica della mente sempre accesa su un eterno presentismo.

cms_22767/2_1628392242.jpgNon sorprende che si affermi una nuova cultura che non ha nulla in comune con quella del passato ma che è costruita sulla condivisione, sulla collaborazione, sul raccontare le proprie storie in un ciclo perpetuo di continua rinarrazione delle proprie vite, dei propri vissuti, delle proprie esperienze, dei propri traguardi. Lo spot del nuovo Watch serie 6 della Apple trova allora una sua giusta collocazione in un panorama dove il passaggio da individui a lavoratori prima e da lavoratori a consumatori dopo si è definitivamente completato. Non vi è tempo per riposare, o meglio, non è concesso farlo, soprattutto se il tempo libero che ci si vuole concedere deve essere continuamente colonizzato in una progettualità algoritmica che ci vuole trasformati da soggetti a progetti, da persone a performer. Riposare, rilassarsi, dormire, pensare devono essere fasi della nostra vita appartenenti al passato, oggi inaccettabili se si vuole raggiungere un target, scalare il ranking. Chi sfugge anche solo per un istante alle regole di una società algoritmica che ci vuole sempre “accesi”, viene ripreso da oggetti tecnologici che un tempo segnavano il tempo che trascorreva mentre oggi sono i controllori di come trascorriamo il nostro tempo; ci svegliano, ci controllano le pulsazioni, il peso, le attività svolte, ci ricordano che il tempo lavorativo e il tempo libero non sono più slegati, pesano sulla nostra coscienza spingendoci a fare di più, a produrre atti memorabili perché «i risultati di ieri purtroppo non sono stati il massimo».

cms_22767/3.jpgÈ un cambiamento mentale quello di cui sto parlando, di un modo di intendere e valutare ogni atto della nostra esistenza attraverso un senso della pratica totale che si avvale di come è impiegato il tempo in un eterno senso del presente in cui la performance di ieri è dimenticata perché devi inventarne una nuova, come aveva già predetto Thomas Hylland Eriksen parlando della tirannia del momento come la caratteristica più evidente della società contemporanea e con cui il claim Apple chiude appunto lo spot invocando: «il futuro del benessere è qui. Al tuo polso». Che sia uno smartwatch o uno smartphone i dispositivi di cui ci circondiamo rappresentano bene il culto della performance e la conseguente ipercompetitività che ne fa parte, frutto di pratiche manageriali di stampo neoliberale che portano a trasformare, anzi, a estinguere tempo del lavoro e tempo della vita. Il risultato della società della prestazione così tanto osannata dal mondo della pubblicità (lo spot Apple è solo il punto di non ritorno di un percorso performativo-soggettivo iniziato da ormai molto tempo) ha come effetto da un lato la diffusione della depressione in quei soggetti che verranno derubricati come scarti perché inadatti ad affrontare sfide continue e dall’altro lato la nascita di una cultura medica della fitness legata a una configurazione sociale in veste ultasoggettiva attraversata dall’imperativo della performance. Lo spot Apple può allora ben immedesimarsi nella metafora descritta dallo scrittore polacco Slawomir Mrozek che descriveva il mondo in cui abitiamo come «la bancarella di un mercato, stracarica di vestiti alla moda, e circondata da folle di persone in cerca del proprio «Sé». […] Andiamo tutti in cerca della nostra vera identità, è un divertimento puro; a condizione, beninteso, che non la troviamo mai. Perché se trovassimo il nostro vero Sé, il divertimento finirebbe».

Andrea Alessandrino

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